«Un'idea
di libertà» è
un'opera di narrativa complessa e bellissima.
Un po di notizie
dalla prefazione di Alberto Asor Rosa: “[...] Alberto Magnaghi
aveva fatto parte in qualità di dirigente – dopo un'iniziale
milizia nel PCI – del gruppo denominato «Potere
operaio»,
nato nel 1969 dalla grande fase di lotte studentesche e operaie […]
è arrestato il 21 dicembre 1979. Magnaghi, in attesa del processo,
trascorre in carcere quasi tre anni. Dal 21 dicembre 1979 al 27
agosto 1980 nel carcere milanese di San Vittore. Dalla fine di agosto
del 1980 al 21 settembre 1982 in quello romano di Rebibbia […]
Un'idea di libertà non è un libro autodifensivo. E' un libro di
attacco. [...]”
Consiglio
questo libro perché è qualcosa che non ti aspetti. Non è un atto
di accusa o di difesa, è un viaggio lungo quasi tre anni, un
percorso mentale capace di esprimere il senso di un'avventura
inaspettata. Una brutalità, perché questo è il carcere, raccontata
nella sua essenza con mirabile capacità.
“[...]
Qualche tempo prima, in
estate, dopo il aprile, salendo verso Pian del Torto, un grumo di
case grigie di pietra affondate in un paesaggio viola cupo dell'Alta
Langa, guardando a valle, addensando il respiro – come avviene
quando il presente è realmente vissuto – mi dicevo «Se
mi capiterà di andare in galera, farò finta che i muri non
esistano, vivrò con me stesso tutto il tempo consumato con gli
altri». Intanto respiravo
i profumi delle more e delle acacie, quasi a immagazzinare sensazioni
per l'apnea. [...]”
Non
è un libro politico, non ci sono inni o parate, c'è un uomo che
racconta il suo vissuto carcerario, senza mai parlare direttamente
del carcere. Si è su una nuvola soffice per ritrovare il tempo
perduto, sdraiati sulla schiena possiamo ascoltare racconti di viaggi
mentali in strade fatte di sbarre e di mura. La «barriera»
non c'è più.
“[...]
Un ragazzo, capelli
lunghi, magro, portamento standard della periferia milanese:
tacchetti, stivali, giaccone con il collo di pelo, mentre alla
matricola ci spogliavano per controllare se nascondevamo qualcosa fra
le cosce, mi ha guardato con un sorriso complice e mi ha chiesto:
«per
che cosa se dentro?» Mi
sono sentito molto imbarazzato: se gli avessi comunicato il mio
smarrimento e gli avessi detto: «per niente, per una montatura
politica», sarei stato ridicolo, l'avrei deluso. Ho risposto: «per
costituzione di banda armata».
Forse
non ho usato la convinzione che il suo sorriso complice richiedeva:
si è girato rivestendosi, senza chiedere più nulla. O forse il
ragazzo, immerso nel suo corpo elegante, ha sentito la mia frase –
e me con essa – come un ferro vecchio inutilizzabile – la
politica – nei suoi desideri di realizzazione. [...]”
LA METAMORFOSI: AUTOANALISI SULLA
MUTAZIONE DEI SENSI.
Imparare la geografia del
sentiero dei camosci - 14/04/1981 – Rebibbia, Reparto G12
Allontanandosi la memoria
del paesaggio un tempo vissuto, la toponomastica muta i suoi
riferimenti simbolici, evocativi, affettivi, suggestivi. Lentamente,
altre geografie si delineano nella «cultura»
del carcerato: una geografia fisica, una geografia politica, una
geografia umana.
Il
significato evocativo dei nomi di città nella memoria e
nell'esperienza individuale e collettiva tende a situarsi in una zona
opaca del ricordo, poiché ad esso, prepotentemente, si sovrappone
un'altra memoria – individuale e collettiva – che snatura i
fattori geografici, antropologici, sociali che il nome di una città
solitamente evoca.
Un
territorio percorso in tempo di guerra produce, probabilmente, un
simile stravolgimento della geografia. In ciascuno questa mutazione è
diversa: segue la molteplicità dei percorsi, ma comune è
l'assunzione di forme e modi di percezione del paesaggio che
attraversiamo nel viaggio nel circuito carcerario.
Questa
trasfigurazione del paesaggio traspare nei racconti dei viaggiatori
sul «sentiero
dei camosci» - tutti noi
– che animano le ore d'aria con i nuovi arrivi. Nord-sud,
est-ovest, città industriali, turistiche, centri storici, eventi
sociali perdono il loro spessore, per essere rappresentati in una
scarna geografia ideale i cui punti – la toponomastica dei luoghi –
sono collegati ad allucinanti viaggi in catene. La città si contrae
nei suoi caratteri paesaggistici fino a essere raccontata attraverso:
- la distanza dai parenti per i colloqui;
- le misure dell'aria e l'umidità delle celle;
- la vista dalle sbarre;
- le ore di socializzazione, la qualità del cibo e delle guardie;
- la «geografia politica» della popolazione carceraria;
- gli eventi rilevanti della storia interna;
- e così via.
E'
un circuito di memoria sotterranea, interna, totale, che non lascia
spazio ad altro paesaggio: la città implode nella sua
rappresentazione carceraria.
Cuneo,
Trani, Novara, Pisa, Milano, Palmi...
La
geografia fisica si risolve nella tipologia delle gabbie.
Curiosamente
le cartoline che arrivano, e che raccontano le città, sembrano
evocazioni di luoghi fantastici. Nel circuito degli speciali è rotto
ogni rapporto fra luogo, città, ambiente sociale urbanoe il recinto
alieno del carcere, la sua popolazione, il suo brulicare di
sofferenze.
Nel
grande carcere giudiziario è diverso: la popolazione carceraria
riproduce la composizione sociale della città, i suoi costumi, la
sua cultura, le sue forme di illegalità, il suo folclore.
Il
legame fisico, affettivo, quotidiano fra la vita del carcere e la
vita della città è ancora forte: il carcere è una sezione
funzionale, uno spaccato della metropoli.
Come
un'auto sul ponteggio del meccanico, un raggio di un carcere racconta
le viscere di un quartiere più di qualunque descrizione sociologica.
Il
carcere è parte integrante della geografia delle borgate : luogo
interno all'esperienza e alla cultura popolare.
Nel
circuito dei camosci questo rapporto è spezzato, casuale, aleatorio,
privo di riferimenti tra popolazione carceraria e cultura locale.
Il
carcere speciale è atopico, collocato in un territorio astratto,
buco nero nel territorio sociale, come una base missilistica, come
una centrale nucleare.
Il
rapporto fra carcere e luogo dove è collocato non ha spessore
storico, la storia è storia del circuito carcerario tramandata per
linee di mobilità interna.
Il
rapporto con il luogo, si dà soltanto quando il buco nero «dilaga»
verso il territorio, rompe i suoi argini, si fa minaccia nei momenti
di tensione di rivolta: allora è vissuto come evento catastrofico,
fiume in piena, vulcano in eruzione, fuoriuscita di gas venefici.
Presenza
oscura, minacciosa, priva di senso, invalicabile.
Il
via vai dei parenti è anch'esso un'astrazione : mutevole nella sua
composizione; insieme di ciorpi estranei che ruotano intorno ad un
corpo estraneo.
Forse
saranno i parenti dei detenuti del sentiero dei camosci, nuovi
pellegrini del paesaggio italiano, a raccontare il rapporto fra la
geografia dei buchi neri e la geografia ufficiale.
Per
noi, nei buchi neri, imparare la geografia è imparare a contrarre il
paesaggio in forma di cella e di li ridefinire le coordinate del
viaggio e i monumenti del sentiero dei camosci.