martedì 21 ottobre 2014

Osservazione estetica alla città filo-razionalista

Santiago de León de Caracas (una delle città giudicate più brutte al mondo)
La concezione di città planetaria che impone le stesse forme, le stesse dimensioni, le stesse funzioni distribuite nello spazio,  spegne le nozioni di identità culturale e di adattamenti all'ambiente umano. La suddivisione del territorio in zone ordina rigorosamente i settori del lavoro, del tempo libero e della circolazione. Molti approcci risultarono prevalenti nella disciplina urbanistica e influenzeranno profondamente le elaborazioni progettuali degli urbanisti italiani, non solo quelle di scuole più razionaliste, ma anche quelle di matrice organica, che,  se pur attente ai caratteri morfologici e culturali, trascurano spesso le significanze naturali degli ambiti da progettare. A prevalere è la monotonia dell’edificato e delle strutture, spesso non caratterizzate da nessun elemento decorativo, edifici spogliati di carattere. Eliminando  il decoro urbano, si elimina un sistema di valori che fa riferimento ad un patrimonio collettivo e che vive della collaborazione tra pubblico e privato. Muri e prospetti decorati che si affacciano e che fanno parte degli spazi pubblici sono un esempio di questo sistema di qualità. La fine del decoro urbano per la città ha mostrato la parte meno caratterizzante della nostra epoca.
Marco Romano nel suo testo La città come opera d’arte, evidenzia come da Mille anni in Europa le case hanno una facciata più o meno decorata con l’intenzione di renderla bella, ricorrendo ad una consolidata e costante sequenza di elementi architettonici. Questa sequenza, della quale siamo cosi assuefatti da non percepire neppure, consiste di solito in un basamento lavorato e in qualche modo distinto dai piani superiori, il solenne portone dell’ingresso, nell’eleganza delle modanature intorno alle finestre, nelle complicate balaustre del balcone, in uno spigolo sottolineato che irrobustisca gli angoli, e in fine in un cornicione o in un tetto sporgente che la conclude in alto. […] Le Corbusier aveva sostenuto negli anni Venti del Novecento, che la modernità dovesse consistere proprio nel cancellare codesti elementi, prescrivendo nei suoi manifesti in piano terreno libero dove compaiono soltanto i pilastri – cancellato dunque il basamento, come tutte le case di Brasilia - , finestre in un nastro orizzontale continuo che avrebbe impedito di per se stesso i timpani e le cornici consueti, e infine il tetto piano senza alcuna sporgenza. Ma di fatto poi gli architetti si guarderanno bene dal seguire questi principi e le facciate delle case moderne avranno gli stessi elementi costitutivi della loro bellezza, disegnati in nuovo stile affiancati a quelli in uso fino ad Ottanta anni fa: anche se poi il rigore del Purismo moderno è diventato la distesa di case anonime e insignificanti dei quartieri contemporanei. Si distinguono cosi gli status, gli intonaci dei poveri e i serramenti malamente verniciati dei quartieri popolari, contrapposti ai bei palazzi dell’élite.
Il mondo moderno per lungo tempo ha quasi dimenticato l’esistenza dei colori sulle facciate, preferendo poche tinte neutre, il bianco, il grigio e il marrone. La maggior parte degli edifici di nuova concezione razionalista (il più delle volte interpretazioni), spesso di scarso valore architettonico, non si integrano armoniosamente con il contesto antico, anzi la loro presenza risulta quasi sempre contrastante con il resto del contesto urbano, la mancanza di urbanità.
Oggi è diventato urgente il ritorno ad un’armoniosa integrazione tra la forma (conscio) e il colore (incoscio), che sostituisce la concezione forma e gesto architettonico.
Uno strumento legislativo importante è il “Piano del Colore” utile per la riqualificazione e il recupero del costruito antico, ma soprattutto per la regolamentazione dell’aspetto estetico degli edifici di recente costruzione, che completano il tessuto dei centri storici. I Piani del Colore sono spesso molto diversi tra loro, perché ogni Comune si è dotato di norme e organi differenti. Il rispetto per l’ambiente, presuppone anche il riguardo per le sue peculiarità: naturali, paesaggistiche, storiche, culturali, architettoniche. Oggi la globalizzazione tende ad avvilire la tradizione e la memoria, e i Piani del Colore si contrappongono a questa tendenza. Se in Italia infatti sono molti i Comuni che si sono dotati o si stanno dotando di un Piano del Colore del Centro Storico, pochi invece pensano a un Piano Cromatico per i moderni quartieri del margine urbano. Il colore è uno degli strumenti, forse il più importante, per la riqualificazione, perché con costi contenuti è possibile trasformare l’impatto visivo di un edificio, di una strada, di un quartiere, di un complesso industriale. Il colore, con la sua capacità di influire sulla percezione della forma, può riplasmare i volumi, correggere le distanze e armonizzare le proporzioni. “Nelle campagne, il colore può mimetizzare l’ingombrante e imbarazzante presenza degli edifici industriali. Anche nei casi in cui la situazione è particolarmente compromessa dal punto di vista estetico, il colore può aggiungere carattere, fantasia, allegria” . Forse la strada più corta per ovviare a precisi interventi di recupero strutturale più profondi, ma di certo un tassello importante, per la riqualificazione urbana (a basso costo) dei quartieri marginali alla città, ormai da molti anni spogli di carattere, per l’Italia, che presenta le più brutte periferia d’Europa.
M.G.L. (articolo del lunedì 19 marzo 2012 - laficudinia.blogspot.it/)

lunedì 13 ottobre 2014

Partecipare è difficile


La diatriba nata attorno al PPR della Toscana, emersa nel momento delle osservazioni avanzate da parte soprattutto di associazioni di settore e consorzi, sta mettendo in luce una carenza importante dei processi pianificatori promossi e avviati nel nostro paese.
Una grande incognita chaiamta "partecipazione" che risulta essere ancora una difficile matassa da sbrogliare. Dopo lo "struggente" articolo comparso sul Foglio a firma di Alessandro Giuli, sono state pubblicate diversi interventi in merito alla questione: quello del presidente della regione Toscana Rossi, quello di Paolo Baldeschi uscito su Eddyburg, quello dello stesso Magnaghi pubblicato sul sito della "setta" nominata Società dei Territorialisti e, tra gli altri, quello (Mecca su PPR 9_10_14) di Saverio Mecca comparso su Repubblica di Firenze il 09/10/2014. Quest'ultimo sottolinea proprio il bisogno di dare adesso "la parola, l'iniziativa e la responsabilità alle comunità", in sintesi: un lavoro utilissimo ed enorme quello portato avanti dal gruppo di lavoro del PPR che ora ha bisogno dell'aiuto più prezioso, quello proveniente dai territori, dalle associazioni di settore e dai cittadini.
Va detto comunque che in parallelo alla costruzione del PPR è stato realizzato "l'Osservatorio sul paesaggio" con finalità ben precise come "approfondire la conoscenza e la consapevolezza che la società locale ha del proprio territorio per contribuire alla valorizzazione del paesaggio e dell’identità locale", "esercitare un ruolo di verifica attiva sull’efficacia delle previsioni e delle azioni di tutela attraverso il monitoraggio delle trasformazioni del paesaggio" e "garantire una costante collaborazione tra i diversi livelli di governo del territorio al fine promuovere politiche e progetti di miglioramento della qualità paesaggistica e territoriale, favorendo al contempo l’ampliamento della partecipazione a tutti i soggetti interessati alle trasformazioni." Sono tutte questioni spinose che possono determinare sensibilmente i risultati dei piani e le dinamiche politiche delle giunte e dei consigli.
Viene in mente il volume "Avventure urbane", libro scritto nel 2002 da Marianella Pirzio Biroli Sclavi, I. Romano, S. Guercio, A. Pillon, M.Robiglio e I. Toussaint. La Sclavi è etnografa urbana al Politecnico di Milano (almeo nel 2002), e ha curato il libro basato sull'esperienza di un gruppo di giovani neo-architetti che sperimentano (nei primi anni '90) in Italia le teorie e le pratiche anglosassoni della progettazione partecipata degli spazi pubblici urbani.
L'idea di una pubblica amministrazione capace di coinvolgere gli abitanti nella progettazione degli spazi urbani in cui risiedono e/o lavorano è effettivamente estranea alla tradizione culturale politica italiana e più in generale alla tradizione giuridica dell'Europa continentale. Essa presuppone infatti una concezione dei rapporti tra società civile, potere politico e ruolo dell'amministrazione pubblica, in pratica rovesciata rispetto a quella che è stata dominante nel nostro paese durante il secolo scorso. I rapporti fra potere legislativo, potere esecutivo e società civile si traducono nel nostro paese, sostanzialmente con una netta separazione fra poteri forti e società, e da sempre con una pubblica amministrazione imparziale capace di operare soltanto con impersonalità e con controlli procedurali. Gli accordi sono di fatto esclusi fra attori sociali e pubblica amminstrazione ed essi sono visti come il primo passo verso il cedimento e la corruzione e gli attori più deboli della società civile possono avere voce unicamente tramite la rappresentanza politica e la partecipazione alle attività politiche. Viene il sospetto quindi, che in Italia i cittadini non si occupano degli spazi pubblici non per eccesso di "familismo amorale", ma per carenza di linguaggi e modalità organizzative e decisionali adeguati a rendere operativa e quindi efficace la comunicazione sugli ambienti, beni e diritti comuni.
In un contesto come questo, si chiede la Sclavi, quali sono allora le dimensioni dell'agire pubblico che una équipe di progettazione partecipata dotata di una adeguata metodologia può promuovere e che invece sono inibite o precluse tanto all'agire amministrativo che alla tradizionale mobilitazione politica? Sostiene l'autrice che sono quelle capaci di attivare in modo organico la disponibilità di tutta una serie di persone concrete presenti nelle più diverse posizioni sociali che già si trovano la fuori, non solo nei quartieri ma anche nelle istituzioni. E' molto importante inoltre cogliere al volo l'occasione quando questa si presenta, bisogna non solo convincere ma in qualche misura sedurre, stabilire rapporti di complicità per trasformare un'impresa impossibile in un'avventura condivisibile e condivisa.
John Forester, uno dei più importanti teorici della progettazione partecipata contemporanei, nel suo libro The Deliberative Practitioner definisce il successo di tale approccio in termini di public action che produce public learning. Tanto i progettisti che gli abitanti e tutti gli altri soggetti - assessori, dirigenti, costruttori, commercianti, poliziotti, assistenti sociali, insegnanti e così via - coinvolti in una iniziativa di progettazione partecipata del territorio accettano la sfida di ridefinire i problemi tramite l'apprendimento reciproco e di inventare nuove opzioni, diverse dalle posizioni di partenza; si tratta di acquisire nel corso del processo un savoir faire che li renda capaci di prendere decisioni di portata pubblica in un clima di collaborazione tra diversi. Questo savoir faire viene enucleato da Forester in tre competenze di base: saper ascoltare, saper interpretare gli input cognitivi delle emozioni, saper gestire creativamente i conflitti.
In un mondo e una società sempre più complessi, le buone pratiche della comunicazione e della convivenza interculturale divengono una dimensione fondamentale della comunicazione e della democrazia anche all'interno di una stessa cultura. I teorici dei sistemi complessi concordano che per gestire situazioni caratterizzate dal contemporaneo aumento della differenziazione e della interdipendenza sono necessarie due condizioni:
1) creare meccanismi grazie ai quali la progettazione assomigli sempre meno a un programma prestabilito e invece sempre più a una strategia in grado di apprendere dagli eventi e dalle contingenze che si producono durante la messa in atto;
2) moltiplicare le forme di auto.organizzazione (la pluralità degli attori) e la loro capacità di mettersi in rete, trasformando i conflitti in occasioni di apprendimento, cioè operare "glocalmente".
Nessuna di queste operazioni può oggigiorno essere svolta efficacemente da chi opera nella pubblica amministrazione senza appoggiarsi su una équipe esterna dotata di ampia autonomia e di un vasto bagaglio di competenze, che vanno dalla strumentazione più tradizionale dell'urbanista, alla costruzione di comunità in situazioni di interculturalità, alla gestione creativa dei conflitti. Assolutamente centrale in tutte queste dinamiche è il ruolo della "comunicazione", intesa come possibilità di sperimentare nuove modalità comunicative adeguate a promuovere la partecipazione in una società complessa; un ampliamento dei linguaggi a disposizione che renda possibile un vero dialogo fra progettisti, amministratori e abitanti. Ma allora, cosa può favorire veramente la cooperazione? La fiducia, quando manca la fiducia , l'unica via percorribile è quella della burocratizzazione, o peggio quella mafiosa.
E' chiaro che progettare uno spazio pubblico di una qualsiasi città non ha la stessa portata di realizzare un Piano Paesaggistico questo è scontato e banale, come pure capire che organizzare un processo partecipativo per un progetto urbano non è assolutamente la stessa cosa che farlo per un piano regionale. Detto questo c'è stata, comunque, alla base del PPR l'intenzione e non solo quella, di organizzare momenti importanti (sicuramente non perfetti) rivolti ad approfondire un ascolto attivo dei pareri e dei bisogni della cittadinanza toscana.
Ma non è sempre così, si pensi al comune di Empoli. Oggi ad esempio (11/10/2014) sul quotidiano "La Nazione" è stato pubblicato un articolo dal titolo "Opere pubbliche per 33 milioni. Tre anni di cantieri verso il futuro. Il piano del Comune riguarda scuole, strade, parcheggi, cimiteri, sport." "Ben 33 milioni e 255mila euro. A tanto ammonta l'importo del programma triennale delle opere pubbliche del Comune di Empoli per il periodo 2015-2017".
Bene. Ma se è vero quello che dice Forester (riportato sempre dalla Sclavi in Avventure urbane) che cioè bisogna spingere per dar voce non solo ai soggetti e gruppi emarginati, ma gli stessi urbanisti promotori di buone pratiche tese a favorire co-progettazione del territorio e public learning, perchè soprattutto loro, seppur socialmente privilegiati, hanno bisogno di indagare e riportare alla luce e pazientemente ricostruire le narrazioni soppresse (...) per riuscire a gettare le basi di un paradigma e di una concezione di potere alternativi. Non c'è stata una volta, una sola volta in cui il comune di Empoli abbia attivato una proficua collaborazione, per la realizzazione di pratiche urbanistiche innovative, con il Corso di Pianificazione territoriale del Dipartimento fiorentino di Architettura, nato ormai più di 10 anni fa proprio a Empoli. Mai una volta le conoscenze, le professionalità, le capacità degli studenti d'urbanistica della scuola empolese, gli stessi che in parte hanno collaborato alla redazione del PPR regionale, sono state messe in pratica in occasioni come quelle riportate dalla "Nazione" di oggi. Una situazione a dir poco surreale.

Anche perchè se è questa la considerazione data ai giovani urbanisti dalle amministrazioni empolesi, viene da chiedersi, ma cosa ci sta a fare il corso di laurea in pianificazione a Empoli? Non sarebbe meglio andare da un'altra parte?
La diatriba nata attorno al PPR della Toscana, emersa nel momento delle osservazioni avanzate da parte soprattutto di associazioni di settore e consorzi, sta mettendo in luce una carenza importante dei processi pianificatori promossi e avviati nel nostro paese. Una grande incognita chaiamta “partecipazione” che risulta essere ancora una difficile matassa da sbrogliare. Dopo lo “struggente” articolo comparso sul Foglio a firma di Alessandro Giuli, sono state pubblicate diversi interventi in merito alla questione: quello del presidente della regione Toscana Rossi, quello di Paolo Baldeschi uscito su Eddyburg, quello dello stesso Magnaghi pubblicato sul sito della “setta” nominata Società dei Territorialisti e, tra gli altri, quello (Mecca su PPR 9_10_14) di Saverio Mecca comparso su Repubblica di Firenze il 09/10/2014. Quest’ultimo sottolinea proprio il bisogno di dare adesso “la parola, l’iniziativa e la responsabilità alle comunità”, in sintesi: un lavoro utilissimo ed enorme quello portato avanti dal gruppo di lavoro del PPR che ora ha bisogno dell’aiuto più prezioso, quello proveniente dai territori, dalle associazioni di settore e dai cittadini. Va detto comunque che in parallelo alla costruzione del PPR è stato realizzato “l’Osservatorio sul paesaggio” con finalità ben precise come “approfondire la conoscenza e la consapevolezza che la società locale ha del proprio territorio per contribuire alla valorizzazione del paesaggio e dell’identità locale”, “esercitare un ruolo di verifica attiva sull’efficacia delle previsioni e delle azioni di tutela attraverso il monitoraggio delle trasformazioni del paesaggio” e “garantire una costante collaborazione tra i diversi livelli di governo del territorio al fine promuovere politiche e progetti di miglioramento della qualità paesaggistica e territoriale, favorendo al contempo l’ampliamento della partecipazione a tutti i soggetti interessati alle trasformazioni.” Sono tutte questioni spinose che possono determinare sensibilmente i risultati dei piani e le dinamiche politiche delle giunte e dei consigli. Viene in mente il volume “Avventure urbane”, libro scritto nel 2002 da Marianella Pirzio Biroli Sclavi, I. Romano, S. Guercio, A. Pillon, M.Robiglio e I. Toussaint. La Sclavi è etnografa urbana al Politecnico di Milano (almeo nel 2002), e ha curato il libro basato sull’esperienza di un gruppo di giovani neo-architetti che sperimentano (nei primi anni ’90) in Italia le teorie e le pratiche anglosassoni della progettazione partecipata degli spazi pubblici urbani. L’idea di una pubblica amministrazione capace di coinvolgere gli abitanti nella progettazione degli spazi urbani in cui risiedono e/o lavorano è effettivamente estranea alla tradizione culturale politica italiana e più in generale alla tradizione giuridica dell’Europa continentale. Essa presuppone infatti una concezione dei rapporti tra società civile, potere politico e ruolo dell’amministrazione pubblica, in pratica rovesciata rispetto a quella che è stata dominante nel nostro paese durante il secolo scorso. I rapporti fra potere legislativo, potere esecutivo e società civile si traducono nel nostro paese, sostanzialmente con una netta separazione fra poteri forti e società, e da sempre con una pubblica amministrazione imparziale capace di operare soltanto con impersonalità e con controlli procedurali. Gli accordi sono di fatto esclusi fra attori sociali e pubblica amminstrazione ed essi sono visti come il primo passo verso il cedimento e la corruzione e gli attori più deboli della società civile possono avere voce unicamente tramite la rappresentanza politica e la partecipazione alle attività politiche. Viene il sospetto quindi, che in Italia i cittadini non si occupano degli spazi pubblici non per eccesso di “familismo amorale”, ma per carenza di linguaggi e modalità organizzative e decisionali adeguati a rendere operativa e quindi efficace la comunicazione sugli ambienti, beni e diritti comuni. In un contesto come questo, si chiede la Sclavi, quali sono allora le dimensioni dell’agire pubblico che una équipe di progettazione partecipata dotata di una adeguata metodologia può promuovere e che invece sono inibite o precluse tanto all’agire amministrativo che alla tradizionale mobilitazione politica? Sostiene l’autrice che sono quelle capaci di attivare in modo organico la disponibilità di tutta una serie di persone concrete presenti nelle più diverse posizioni sociali che già si trovano la fuori, non solo nei quartieri ma anche nelle istituzioni. E’ molto importante inoltre cogliere al volo l’occasione quando questa si presenta, bisogna non solo convincere ma in qualche misura sedurre, stabilire rapporti di complicità per trasformare un’impresa impossibile in un’avventura condivisibile e condivisa. John Forester, uno dei più importanti teorici della progettazione partecipata contemporanei, nel suo libro The Deliberative Practitioner definisce il successo di tale approccio in termini di public action che produce public learning. Tanto i progettisti che gli abitanti e tutti gli altri soggetti – assessori, dirigenti, costruttori, commercianti, poliziotti, assistenti sociali, insegnanti e così via – coinvolti in una iniziativa di progettazione partecipata del territorio accettano la sfida di ridefinire i problemi tramite l’apprendimento reciproco e di inventare nuove opzioni, diverse dalle posizioni di partenza; si tratta di acquisire nel corso del processo un savoir faire che li renda capaci di prendere decisioni di portata pubblica in un clima di collaborazione tra diversi. Questo savoir faire viene enucleato da Forester in tre competenze di base: saper ascoltare, saper interpretare gli input cognitivi delle emozioni, saper gestire creativamente i conflitti. In un mondo e una società sempre più complessi, le buone pratiche della comunicazione e della convivenza interculturale divengono una dimensione fondamentale della comunicazione e della democrazia anche all’interno di una stessa cultura. I teorici dei sistemi complessi concordano che per gestire situazioni caratterizzate dal contemporaneo aumento della differenziazione e della interdipendenza sono necessarie due condizioni: 1) creare meccanismi grazie ai quali la progettazione assomigli sempre meno a un programma prestabilito e invece sempre più a una strategia in grado di apprendere dagli eventi e dalle contingenze che si producono durante la messa in atto; 2) moltiplicare le forme di auto.organizzazione (la pluralità degli attori) e la loro capacità di mettersi in rete, trasformando i conflitti in occasioni di apprendimento, cioè operare “glocalmente”. Nessuna di queste operazioni può oggigiorno essere svolta efficacemente da chi opera nella pubblica amministrazione senza appoggiarsi su una équipe esterna dotata di ampia autonomia e di un vasto bagaglio di competenze, che vanno dalla strumentazione più tradizionale dell’urbanista, alla costruzione di comunità in situazioni di interculturalità, alla gestione creativa dei conflitti. Assolutamente centrale in tutte queste dinamiche è il ruolo della “comunicazione”, intesa come possibilità di sperimentare nuove modalità comunicative adeguate a promuovere la partecipazione in una società complessa; un ampliamento dei linguaggi a disposizione che renda possibile un vero dialogo fra progettisti, amministratori e abitanti. Ma allora, cosa può favorire veramente la cooperazione? La fiducia, quando manca la fiducia , l’unica via percorribile è quella della burocratizzazione, o peggio quella mafiosa. E’ chiaro che progettare uno spazio pubblico di una qualsiasi città non ha la stessa portata di realizzare un Piano Paesaggistico questo è scontato e banale, come pure capire che organizzare un processo partecipativo per un progetto urbano non è assolutamente la stessa cosa che farlo per un piano regionale. Detto questo c’è stata, comunque, alla base del PPR l’intenzione e non solo quella, di organizzare momenti importanti (sicuramente non perfetti) rivolti ad approfondire un ascolto attivo dei pareri e dei bisogni della cittadinanza toscana. Ma non è sempre così, si pensi al comune di Empoli. Oggi ad esempio (11/10/2014) sul quotidiano “La Nazione” è stato pubblicato un articolo dal titolo “Opere pubbliche per 33 milioni. Tre anni di cantieri verso il futuro. Il piano del Comune riguarda scuole, strade, parcheggi, cimiteri, sport.” “Ben 33 milioni e 255mila euro. A tanto ammonta l’importo del programma triennale delle opere pubbliche del Comune di Empoli per il periodo 2015-2017″. Bene. Ma se è vero quello che dice Forester (riportato sempre dalla Sclavi in Avventure urbane) che cioè bisogna spingere per dar voce non solo ai soggetti e gruppi emarginati, ma gli stessi urbanisti promotori di buone pratiche tese a favorire co-progettazione del territorio e public learning, perchè soprattutto loro, seppur socialmente privilegiati, hanno bisogno di indagare e riportare alla luce e pazientemente ricostruire le narrazioni soppresse (…) per riuscire a gettare le basi di un paradigma e di una concezione di potere alternativi. Non c’è stata una volta, una sola volta in cui il comune di Empoli abbia attivato una proficua collaborazione, per la realizzazione di pratiche urbanistiche innovative, con il Corso di Pianificazione territoriale del Dipartimento fiorentino di Architettura, nato ormai più di 10 anni fa proprio a Empoli. Mai una volta le conoscenze, le professionalità, le capacità degli studenti d’urbanistica della scuola empolese, gli stessi che in parte hanno collaborato alla redazione del PPR regionale, sono state messe in pratica in occasioni come quelle riportate dalla “Nazione” di oggi. Una situazione a dir poco surreale. Anche perchè se è questa la considerazione data ai giovani urbanisti dalle amministrazioni empolesi, viene da chiedersi, ma cosa ci sta a fare il corso di laurea in pianificazione a Empoli? Non sarebbe meglio andare da un’altra parte?

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La diatriba nata attorno al PPR della Toscana, emersa nel momento delle osservazioni avanzate da parte soprattutto di associazioni di settore e consorzi, sta mettendo in luce una carenza importante dei processi pianificatori promossi e avviati nel nostro paese. Una grande incognita chaiamta “partecipazione” che risulta essere ancora una difficile matassa da sbrogliare. Dopo lo “struggente” articolo comparso sul Foglio a firma di Alessandro Giuli, sono state pubblicate diversi interventi in merito alla questione: quello del presidente della regione Toscana Rossi, quello di Paolo Baldeschi uscito su Eddyburg, quello dello stesso Magnaghi pubblicato sul sito della “setta” nominata Società dei Territorialisti e, tra gli altri, quello (Mecca su PPR 9_10_14) di Saverio Mecca comparso su Repubblica di Firenze il 09/10/2014. Quest’ultimo sottolinea proprio il bisogno di dare adesso “la parola, l’iniziativa e la responsabilità alle comunità”, in sintesi: un lavoro utilissimo ed enorme quello portato avanti dal gruppo di lavoro del PPR che ora ha bisogno dell’aiuto più prezioso, quello proveniente dai territori, dalle associazioni di settore e dai cittadini. Va detto comunque che in parallelo alla costruzione del PPR è stato realizzato “l’Osservatorio sul paesaggio” con finalità ben precise come “approfondire la conoscenza e la consapevolezza che la società locale ha del proprio territorio per contribuire alla valorizzazione del paesaggio e dell’identità locale”, “esercitare un ruolo di verifica attiva sull’efficacia delle previsioni e delle azioni di tutela attraverso il monitoraggio delle trasformazioni del paesaggio” e “garantire una costante collaborazione tra i diversi livelli di governo del territorio al fine promuovere politiche e progetti di miglioramento della qualità paesaggistica e territoriale, favorendo al contempo l’ampliamento della partecipazione a tutti i soggetti interessati alle trasformazioni.” Sono tutte questioni spinose che possono determinare sensibilmente i risultati dei piani e le dinamiche politiche delle giunte e dei consigli. Viene in mente il volume “Avventure urbane”, libro scritto nel 2002 da Marianella Pirzio Biroli Sclavi, I. Romano, S. Guercio, A. Pillon, M.Robiglio e I. Toussaint. La Sclavi è etnografa urbana al Politecnico di Milano (almeo nel 2002), e ha curato il libro basato sull’esperienza di un gruppo di giovani neo-architetti che sperimentano (nei primi anni ’90) in Italia le teorie e le pratiche anglosassoni della progettazione partecipata degli spazi pubblici urbani. L’idea di una pubblica amministrazione capace di coinvolgere gli abitanti nella progettazione degli spazi urbani in cui risiedono e/o lavorano è effettivamente estranea alla tradizione culturale politica italiana e più in generale alla tradizione giuridica dell’Europa continentale. Essa presuppone infatti una concezione dei rapporti tra società civile, potere politico e ruolo dell’amministrazione pubblica, in pratica rovesciata rispetto a quella che è stata dominante nel nostro paese durante il secolo scorso. I rapporti fra potere legislativo, potere esecutivo e società civile si traducono nel nostro paese, sostanzialmente con una netta separazione fra poteri forti e società, e da sempre con una pubblica amministrazione imparziale capace di operare soltanto con impersonalità e con controlli procedurali. Gli accordi sono di fatto esclusi fra attori sociali e pubblica amminstrazione ed essi sono visti come il primo passo verso il cedimento e la corruzione e gli attori più deboli della società civile possono avere voce unicamente tramite la rappresentanza politica e la partecipazione alle attività politiche. Viene il sospetto quindi, che in Italia i cittadini non si occupano degli spazi pubblici non per eccesso di “familismo amorale”, ma per carenza di linguaggi e modalità organizzative e decisionali adeguati a rendere operativa e quindi efficace la comunicazione sugli ambienti, beni e diritti comuni. In un contesto come questo, si chiede la Sclavi, quali sono allora le dimensioni dell’agire pubblico che una équipe di progettazione partecipata dotata di una adeguata metodologia può promuovere e che invece sono inibite o precluse tanto all’agire amministrativo che alla tradizionale mobilitazione politica? Sostiene l’autrice che sono quelle capaci di attivare in modo organico la disponibilità di tutta una serie di persone concrete presenti nelle più diverse posizioni sociali che già si trovano la fuori, non solo nei quartieri ma anche nelle istituzioni. E’ molto importante inoltre cogliere al volo l’occasione quando questa si presenta, bisogna non solo convincere ma in qualche misura sedurre, stabilire rapporti di complicità per trasformare un’impresa impossibile in un’avventura condivisibile e condivisa. John Forester, uno dei più importanti teorici della progettazione partecipata contemporanei, nel suo libro The Deliberative Practitioner definisce il successo di tale approccio in termini di public action che produce public learning. Tanto i progettisti che gli abitanti e tutti gli altri soggetti – assessori, dirigenti, costruttori, commercianti, poliziotti, assistenti sociali, insegnanti e così via – coinvolti in una iniziativa di progettazione partecipata del territorio accettano la sfida di ridefinire i problemi tramite l’apprendimento reciproco e di inventare nuove opzioni, diverse dalle posizioni di partenza; si tratta di acquisire nel corso del processo un savoir faire che li renda capaci di prendere decisioni di portata pubblica in un clima di collaborazione tra diversi. Questo savoir faire viene enucleato da Forester in tre competenze di base: saper ascoltare, saper interpretare gli input cognitivi delle emozioni, saper gestire creativamente i conflitti. In un mondo e una società sempre più complessi, le buone pratiche della comunicazione e della convivenza interculturale divengono una dimensione fondamentale della comunicazione e della democrazia anche all’interno di una stessa cultura. I teorici dei sistemi complessi concordano che per gestire situazioni caratterizzate dal contemporaneo aumento della differenziazione e della interdipendenza sono necessarie due condizioni: 1) creare meccanismi grazie ai quali la progettazione assomigli sempre meno a un programma prestabilito e invece sempre più a una strategia in grado di apprendere dagli eventi e dalle contingenze che si producono durante la messa in atto; 2) moltiplicare le forme di auto.organizzazione (la pluralità degli attori) e la loro capacità di mettersi in rete, trasformando i conflitti in occasioni di apprendimento, cioè operare “glocalmente”. Nessuna di queste operazioni può oggigiorno essere svolta efficacemente da chi opera nella pubblica amministrazione senza appoggiarsi su una équipe esterna dotata di ampia autonomia e di un vasto bagaglio di competenze, che vanno dalla strumentazione più tradizionale dell’urbanista, alla costruzione di comunità in situazioni di interculturalità, alla gestione creativa dei conflitti. Assolutamente centrale in tutte queste dinamiche è il ruolo della “comunicazione”, intesa come possibilità di sperimentare nuove modalità comunicative adeguate a promuovere la partecipazione in una società complessa; un ampliamento dei linguaggi a disposizione che renda possibile un vero dialogo fra progettisti, amministratori e abitanti. Ma allora, cosa può favorire veramente la cooperazione? La fiducia, quando manca la fiducia , l’unica via percorribile è quella della burocratizzazione, o peggio quella mafiosa. E’ chiaro che progettare uno spazio pubblico di una qualsiasi città non ha la stessa portata di realizzare un Piano Paesaggistico questo è scontato e banale, come pure capire che organizzare un processo partecipativo per un progetto urbano non è assolutamente la stessa cosa che farlo per un piano regionale. Detto questo c’è stata, comunque, alla base del PPR l’intenzione e non solo quella, di organizzare momenti importanti (sicuramente non perfetti) rivolti ad approfondire un ascolto attivo dei pareri e dei bisogni della cittadinanza toscana. Ma non è sempre così, si pensi al comune di Empoli. Oggi ad esempio (11/10/2014) sul quotidiano “La Nazione” è stato pubblicato un articolo dal titolo “Opere pubbliche per 33 milioni. Tre anni di cantieri verso il futuro. Il piano del Comune riguarda scuole, strade, parcheggi, cimiteri, sport.” “Ben 33 milioni e 255mila euro. A tanto ammonta l’importo del programma triennale delle opere pubbliche del Comune di Empoli per il periodo 2015-2017″. Bene. Ma se è vero quello che dice Forester (riportato sempre dalla Sclavi in Avventure urbane) che cioè bisogna spingere per dar voce non solo ai soggetti e gruppi emarginati, ma gli stessi urbanisti promotori di buone pratiche tese a favorire co-progettazione del territorio e public learning, perchè soprattutto loro, seppur socialmente privilegiati, hanno bisogno di indagare e riportare alla luce e pazientemente ricostruire le narrazioni soppresse (…) per riuscire a gettare le basi di un paradigma e di una concezione di potere alternativi. Non c’è stata una volta, una sola volta in cui il comune di Empoli abbia attivato una proficua collaborazione, per la realizzazione di pratiche urbanistiche innovative, con il Corso di Pianificazione territoriale del Dipartimento fiorentino di Architettura, nato ormai più di 10 anni fa proprio a Empoli. Mai una volta le conoscenze, le professionalità, le capacità degli studenti d’urbanistica della scuola empolese, gli stessi che in parte hanno collaborato alla redazione del PPR regionale, sono state messe in pratica in occasioni come quelle riportate dalla “Nazione” di oggi. Una situazione a dir poco surreale. Anche perchè se è questa la considerazione data ai giovani urbanisti dalle amministrazioni empolesi, viene da chiedersi, ma cosa ci sta a fare il corso di laurea in pianificazione a Empoli? Non sarebbe meglio andare da un’altra parte?

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