giovedì 6 novembre 2014

UNA VITA VIOLENTA

A Roma piove e ogni volta è un'emergenza. Eppure la fragilità del nostro bellissimo territorio è cosa risaputa, da sempre. 
Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1959 - Una vita violenta - un'opera bellissima, in cui l'autore descrive, tra le innumerevoli altre cose (dalla meravigliosa descrizione della quotidianità rude della vita romana nelle borgate del dopoguerra, alle occupazioni di case vuote e gli sgombri successivi da parte della polizia), il territorio stuprato della capitale proprio negli anni « (...) dell'invasione delle case vuote, spuntate dalla speculazione edilizia dei palazzinari romani all'arrembaggio. (...) ». (Erri De Luca in prefazione al libro)
Detto questo, se oggi è un dato di fatto che il nostro paese sta vivendo un'era nuova segnata clamorosamente da cambiamenti climatici importantissimi e devastanti, è anche vero che conseguentemente alle nostre scelte più scellerate (di pianificazione urbanistica e territoriale, ma non solo) abbiamo saputo rendere ogni pioggia come un momento di estremo disagio. 
Un piccolo brano molto significativo, ripreso da Una vita violenta (1959):


« (...) Tommaso e Alberto erano i più acchittoni(1) lì in mezzo, al Bar Duemila. Potevano permettersi di fare i malandri  con una certa leggerezza, benché senza troppo esagerare. Tutti calmi e distratti sortirono, montarono sulla vespa, Alberto davanti, Tommaso dietro. Alberto calcò sette otto volte, col tacco, su quella fija de 'na mignotta della messa in moto, e Tommaso intanto s'accomodò, con aria indifferente, guardandosi intorno. E non cambiò espressione neanche quando la vespa partì a razzo: teneva tranquillo le mani strette dietro la schiena, come c'avesse gli schiavettoni. 

A mancina il Monte del Pecoraro, a destra i lotti di Tiburtino in fondo al piazzale, con la campanella che suonava come una disgraziata, sparirono indietro. Sparì via delle Messi d'Oro, con l'osteria, la fila di oleandretti sderenati lungo il ciglione, con tutta la processione di gente e le truppe dei ragazzini e dei giovanotti, che, qua e là, andavano sempre nello stesso senso, per la Tiburtina; sparì il SilverCine e sparì la fabbrichetta zozza di sapone appena costruita li vicino. 

L'Aniene arrivava a Tiburtino scendendo giù dai Castelli: arrivato lì, passava sotto un ponticello vecchio di mattoni, dove c'era una draga e un'osteriuccia antica, una catacomba. Poi sfilava un po d'orti decrepiti, trucidi, pieni d'ogni ben di Dio, da una parte, e, dall'altra, verso i lotti di Tiburtino, tutto un pezzo di campagna a canne e spezzoni di grano mal tagliato. Passava poi sotto la fabbrica della varecchina, un accrocco(2) di serbatoi, di ballatoi, di terrazze marziane, che spurgava un ruscelletto bianco di acidi sulla corrente: imboccava l'archetto del ponte sulla Tiburtina, scompariva sotto una galleria di canne, e se ne andava giù, verso Montesacro, a buttarsi nel Tevere. 

Tutto questo pezzo di pianura, quella domenica, era trasformato in un mare. Fin dove l'occhio poteva arrivare, da una parte verso i monti di Tivoli, dall'altra lì presso, verso Tiburtina, non c'era altro che acqua. Tiburtino sorgeva come un porto, con le sue file tutte uguali di lotti, come magazzini, che avevano una facciata bianca illuminata dal sole, e l'altra in ombra, nera. Non c'era più distinzione di campi, prati, argini, strade e stradelli. In fondo in fondo il piccolo gasometro e la selva dei fari e dei riflettori della centrale, parevano tanti bastimenti ancorati.

La massa d'acqua si spingeva giù, gialla e densa, coi ribolli che s'ntorcinavano, fino contro l'argine della Tiburtina, schiumeggiando: lì si fermava, rabbiosa, rinculava, s'incanalava un'altra volta sul letto solito del fiume, e ammucchiandosi in cavalloni lividi, passava come una furia sotto il ponte: di là si riallargava un'altra volta nella campagna: e i quattro o cinque casali erano là in mezzo come tante arche di Noè. 
Su tutta quella distesa d'acqua, batteva il sole, tinteggiando d'oro una faccia delle migliaia e migliaia di onde, di crespe, tutte gialle, e illuminando i tronchi neri, l'erbacce, le casse, la zozzeria, le macchie d'olio che galleggiavano su tutto quell'orizzonte d'acqua bullicosa(3). 
Così la Tiburtina era come un molo, tutto pieno di gente ch'era venuta a gustarsi lo spettacolo dell'inondazione pareva la notte della sgrullata. 

Poi ecco arrivare il 311, diretto a Rebibbia: marciava piano piano, tra la gente imbottigliata, e come arrivò in fondo, all'altezza del ponte, si fermò. Alberto e Tommaso, sulla loro vespa, cogli altri ch'erano motorizzati, gli andarono appresso, a vedere quello che succedeva. Laggiù, difatti, a una cinquantina di metri dal ponte, pure la strada era ormai allagata. La gente dell'autobus, chi scendeva e chi restava sopra, stirando il collo dai finestrini. 
Poi due o tre giovanotti di Ponte Mammolo, tutti impompati(4), si tolsero gli scarpini, i pedali, s'arrovigliarono(5) sui polpacci i calzoni, alla pirata, e alzando moina per farsi vedere cominciarono a correre scalzi, tutti allegri, verso Via Casal Pazzi, a casa.
Quelli che invece erano rimasti di qua, uomini anziani, donne, impiegati, si morsicavano i gomiti, per l'impazienza e la rabbia: il fattorino s'era sbragato con le mani sulla pancia sulla sua seggioletta e fischiettava. 

Alberto, Tommaso e tutt'intorno un macello di pischelli e giovanotti, stettero lì per più di un'oretta a papparsi tutta l'operazione culo a mollo: un altro auto era venuto da Montesacro, dall'altra parte del ponte, perché non c'era da fidarsi a passarlo: e la gente, trasportata di là in un modo o nell'altro, tutta incollata, prendeva quello. Sulla Tiburtina, lì, in mezzo al mare, c'era più traffico e ingorgo di macchine che nelle ore di punta dentro Roma. 

L'unica campana nei dintorni era quella, piccoletta, di Tiburtino. Quando questa cominciò a fare tutta una canizza(6) per annunciare il mezzogiorno, il sole ormai non c'era più. Le nuvole che s'erano compresse e rannicchiate in fondo al cielo avevano ricominciato a gonfiarsi: bianche come la panna, erano scivolate lassù, in alto, s'erano riammassate, distaccate, riammassate ancora, leggere che parevano spose in abito da nozze, o scure e scorticate come mucchi d'immondezza scossi dalla giannetta. Avevano finito per riotturare tutto il cielo, una sopra, una sotto, una piccoletta, una grossa, una grigia, una scura, una bianca, e tutte impiastricciate, zozze, ghiacce. In un pezzo di cielo continuava a brillare il sole, che ormai era fatto, pareva dimenticato da Cristo, perché un fumo che non era nebbia e non era nuvole, correva sotto quella crosta che copriva il cielo, a ondate, nero come l'anima. Poi una parte di tutto quel mucchio di nuvoloni, di nuvolette, di fumo, diventò tutta grigia uguale, dalla parte di Roma. Era color della terra, e come terra sfregolava si stendeva a picco sopra la città: da lì venne un primo tuono che intronò fino dentro l'ossa. 

Ormai il mare su cui sorgeva Tiburtino, e si stendeva tutt'intorno sopra le campagne, era color nero: si distingueva ch'era acqua solo per il luccicare confuso delle crespe. Venne giù un temporale come la notte precedente, coi fulmini e la grandine. La gente fece appena in tempo a scappare a casa sotto i primi goccioloni, con un buio che pareva notte. (...) »

Glossarietto
(1) Acchitta - vestirsi con eleganza;
(2) Accrocco - mucchio, posto, insieme di cose;
(3) Bullicoso - ribollente;
(4) Impompati - vestito con lusso;
(5) Arrovigliarsi - arrotolarsi; 
(6) Canizza - baccano;

Tratto da: Pasolini P. P., Una vita violenta, Corriere della Sera - I grandi romanzi, 2003, Milano.






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