giovedì 25 dicembre 2014

UN'IDEA DI LIBERTA'




«Un'idea di libertà» è un'opera di narrativa complessa e bellissima. 
Un po di notizie dalla prefazione di Alberto Asor Rosa: “[...] Alberto Magnaghi aveva fatto parte in qualità di dirigente – dopo un'iniziale milizia nel PCI – del gruppo denominato «Potere operaio», nato nel 1969 dalla grande fase di lotte studentesche e operaie […] è arrestato il 21 dicembre 1979. Magnaghi, in attesa del processo, trascorre in carcere quasi tre anni. Dal 21 dicembre 1979 al 27 agosto 1980 nel carcere milanese di San Vittore. Dalla fine di agosto del 1980 al 21 settembre 1982 in quello romano di Rebibbia […] Un'idea di libertà non è un libro autodifensivo. E' un libro di attacco. [...]”

Consiglio questo libro perché è qualcosa che non ti aspetti. Non è un atto di accusa o di difesa, è un viaggio lungo quasi tre anni, un percorso mentale capace di esprimere il senso di un'avventura inaspettata. Una brutalità, perché questo è il carcere, raccontata nella sua essenza con mirabile capacità.

[...] Qualche tempo prima, in estate, dopo il aprile, salendo verso Pian del Torto, un grumo di case grigie di pietra affondate in un paesaggio viola cupo dell'Alta Langa, guardando a valle, addensando il respiro – come avviene quando il presente è realmente vissuto – mi dicevo «Se mi capiterà di andare in galera, farò finta che i muri non esistano, vivrò con me stesso tutto il tempo consumato con gli altri». Intanto respiravo i profumi delle more e delle acacie, quasi a immagazzinare sensazioni per l'apnea. [...]”

Non è un libro politico, non ci sono inni o parate, c'è un uomo che racconta il suo vissuto carcerario, senza mai parlare direttamente del carcere. Si è su una nuvola soffice per ritrovare il tempo perduto, sdraiati sulla schiena possiamo ascoltare racconti di viaggi mentali in strade fatte di sbarre e di mura. La «barriera» non c'è più.

[...] Un ragazzo, capelli lunghi, magro, portamento standard della periferia milanese: tacchetti, stivali, giaccone con il collo di pelo, mentre alla matricola ci spogliavano per controllare se nascondevamo qualcosa fra le cosce, mi ha guardato con un sorriso complice e mi ha chiesto: «per che cosa se dentro?» Mi sono sentito molto imbarazzato: se gli avessi comunicato il mio smarrimento e gli avessi detto: «per niente, per una montatura politica», sarei stato ridicolo, l'avrei deluso. Ho risposto: «per costituzione di banda armata».
Forse non ho usato la convinzione che il suo sorriso complice richiedeva: si è girato rivestendosi, senza chiedere più nulla. O forse il ragazzo, immerso nel suo corpo elegante, ha sentito la mia frase – e me con essa – come un ferro vecchio inutilizzabile – la politica – nei suoi desideri di realizzazione. [...]”

LA METAMORFOSI: AUTOANALISI SULLA MUTAZIONE DEI SENSI.
Imparare la geografia del sentiero dei camosci - 14/04/1981 – Rebibbia, Reparto G12

Allontanandosi la memoria del paesaggio un tempo vissuto, la toponomastica muta i suoi riferimenti simbolici, evocativi, affettivi, suggestivi. Lentamente, altre geografie si delineano nella «cultura» del carcerato: una geografia fisica, una geografia politica, una geografia umana.
Il significato evocativo dei nomi di città nella memoria e nell'esperienza individuale e collettiva tende a situarsi in una zona opaca del ricordo, poiché ad esso, prepotentemente, si sovrappone un'altra memoria – individuale e collettiva – che snatura i fattori geografici, antropologici, sociali che il nome di una città solitamente evoca.
Un territorio percorso in tempo di guerra produce, probabilmente, un simile stravolgimento della geografia. In ciascuno questa mutazione è diversa: segue la molteplicità dei percorsi, ma comune è l'assunzione di forme e modi di percezione del paesaggio che attraversiamo nel viaggio nel circuito carcerario.
Questa trasfigurazione del paesaggio traspare nei racconti dei viaggiatori sul «sentiero dei camosci» - tutti noi – che animano le ore d'aria con i nuovi arrivi. Nord-sud, est-ovest, città industriali, turistiche, centri storici, eventi sociali perdono il loro spessore, per essere rappresentati in una scarna geografia ideale i cui punti – la toponomastica dei luoghi – sono collegati ad allucinanti viaggi in catene. La città si contrae nei suoi caratteri paesaggistici fino a essere raccontata attraverso:
  • la distanza dai parenti per i colloqui;
  • le misure dell'aria e l'umidità delle celle;
  • la vista dalle sbarre;
  • le ore di socializzazione, la qualità del cibo e delle guardie;
  • la «geografia politica» della popolazione carceraria;
  • gli eventi rilevanti della storia interna;
  • e così via.
E' un circuito di memoria sotterranea, interna, totale, che non lascia spazio ad altro paesaggio: la città implode nella sua rappresentazione carceraria.
Cuneo, Trani, Novara, Pisa, Milano, Palmi...
La geografia fisica si risolve nella tipologia delle gabbie.
Curiosamente le cartoline che arrivano, e che raccontano le città, sembrano evocazioni di luoghi fantastici. Nel circuito degli speciali è rotto ogni rapporto fra luogo, città, ambiente sociale urbanoe il recinto alieno del carcere, la sua popolazione, il suo brulicare di sofferenze.
Nel grande carcere giudiziario è diverso: la popolazione carceraria riproduce la composizione sociale della città, i suoi costumi, la sua cultura, le sue forme di illegalità, il suo folclore.
Il legame fisico, affettivo, quotidiano fra la vita del carcere e la vita della città è ancora forte: il carcere è una sezione funzionale, uno spaccato della metropoli.
Come un'auto sul ponteggio del meccanico, un raggio di un carcere racconta le viscere di un quartiere più di qualunque descrizione sociologica.
Il carcere è parte integrante della geografia delle borgate : luogo interno all'esperienza e alla cultura popolare.
Nel circuito dei camosci questo rapporto è spezzato, casuale, aleatorio, privo di riferimenti tra popolazione carceraria e cultura locale.
Il carcere speciale è atopico, collocato in un territorio astratto, buco nero nel territorio sociale, come una base missilistica, come una centrale nucleare.
Il rapporto fra carcere e luogo dove è collocato non ha spessore storico, la storia è storia del circuito carcerario tramandata per linee di mobilità interna.
Il rapporto con il luogo, si dà soltanto quando il buco nero «dilaga» verso il territorio, rompe i suoi argini, si fa minaccia nei momenti di tensione di rivolta: allora è vissuto come evento catastrofico, fiume in piena, vulcano in eruzione, fuoriuscita di gas venefici.

Presenza oscura, minacciosa, priva di senso, invalicabile.
Il via vai dei parenti è anch'esso un'astrazione : mutevole nella sua composizione; insieme di ciorpi estranei che ruotano intorno ad un corpo estraneo.
Forse saranno i parenti dei detenuti del sentiero dei camosci, nuovi pellegrini del paesaggio italiano, a raccontare il rapporto fra la geografia dei buchi neri e la geografia ufficiale.
Per noi, nei buchi neri, imparare la geografia è imparare a contrarre il paesaggio in forma di cella e di li ridefinire le coordinate del viaggio e i monumenti del sentiero dei camosci.

Magnaghi A., “Un'idea di libertà”, I edizione 1985, DeriveApprodi 2014, Roma.

sabato 22 novembre 2014

VIA DALLE CITTA' I SEDENTARI A MOTORE



Automobile: una mania futuristica e puerile. Andate un po' a piedi. E ci saranno meno infarti e trombosi, meno angosce e tristezze, meno problemi e anche meno brutture architettoniche e urbanistiche nonché naturali. Noi stessi che stiamo ora scrivendo, giornalisti e viaggianti, non abbiamo l'automobile; e potremmo mantenercene allegramente quattro, si sa. Preferiamo andare a piedi soprattutto perché quando il piede cammina il cuore è contento. E poi perché siamo convinti che fa più fino non averla. E poi ancora perché - senza scherzi - siamo sicuri di arrivar prima col treno, col tranvai, col tassì e magari proprio a piedi. Pigliamo il tassì, quando ci serve; o una macchina a nolo, se per andar fuori. Altrimenti, il tram o l'autobus.

Vero è che - come il treno - questi servizi pubblici sembrano ormai inventati apposta per incoraggiare l'individuale, egoistica automobile, prepotente, schiacciante, sfondante, rovina della bellezza nelle città e nelle campagne: un mezzo di trasporto che può agire in pessimi sensi sulla psiche e che diseduca in modo speciale troppi italiani, col dare vano orgoglio, complesso di superiorità, protervia e col deprimere, con l'abbassare la visione e ogni comprensione del mondo. I tassì non di rado sono vecchi indecentemente, rotti e scomodi, i peggiori dell'Europa che conosciamo; e sono scarsi, introvabili quando più servono. (A Madrid, per esempio, che non è poi il doppio di Milano, ce ne sono quasi seimila, e macchine capaci, robuste, moderne insomma. A Milano che si vanta sempre d'essere modernissima, di essere brutta ma simpatica, ma bella perché moderna, di consumarsi e di bruciarsi per rinnovarsi mirabilmente come la fenice, di vivere pulsando e fremendo per la gran modernità, sono sfruttate certe lente autopubbliche ancora a metano, e persino i modelli più recenti, di debole cilindrata e di miserabile carrozzeria, sembrano già comprati sul mercato delle cattive occasioni.)

Quanto agli autobus, al filobus e ai tranvai, paiono la massima parte mostruosamente studiati e fabbricati per torturare: pochi posti a sedere e illimitata capacità di digerire gente in piedi, lotte tenaci e atroci se si cerca un varco verso l'uscita, affannose corse avanti e indietro perché i manovratori fermano prima o dopo le fermate ... Santo cielo! Gl'italiani hanno perso o non hanno mai avuto nozione dei loro diritti. I servizi pubblici sono fatti per servire il pubblico e non le aziende e i municipi e non i manovratori e i bigliettari.  E dove sono finiti gli antichi cartelli con su scritto "completo"? Si legge invece, nell'interno, questa patetica esortazione: "E' spesso penoso per le signore anziane restare in piedi. Non dimentichiamo di cedere loro i posti a sedere". La prima a dimenticarsene è però proprio l'Azienda; la quale anche per i mutilati si contenta di targhette inutili quando le vetture sono zeppe e inutili quando non lo sono e così c'è posto.

Comunque sia, noi preferiamo il tram e l'autobus allo scomodo di dover girare e sostare in città con automobile propria. Ciò non toglie che il posto a sedere dovrebbe essere assicurato a chiunque paghi il biglietto e che sulle piattaforme non dovrebbero essere tollerate più di sei persone. Ma le nostre aziende pensano forse ai passeggeri? Giorni fa a Catania la ressa su una linea di autobus salì a tale scandaloso gallismo - esaltato, del resto, nella nostra  - che si dovette escogitare il rimedio di istituire speciali vetture a sessi distinti e separati. Quindi i maschi viaggeranno accalcati tra di loro e le femmine idem: ma ad aumentare umanamente il numero degli autobus, a questo no, non si pensa. Già l'Italia è il paese dove nei cinematografi si vendono senza tregua biglietti, senza fine, e dove la gente si gode lo spettacolo rimanendo dritta e schiacciata sotto lo schermo. (E i pompieri?)


In simile stato di cose - e coi treni che molte volte rammentano quelli dei deportati - con tanti pessimi tranvai e autobus, con pochi e scatasciati tassì - riceve dunque una specie di esplicativa risposta la solita domanda: è mai possibile che tutti tutti debbano girare in automobile - di regola una sola persona in un'automobile a sei posti più lo spazio per i bagagli - e che in tal modo l'auto comune - e con un'unica persona -  occupi lo spazio di un mezzo autobus o tranvai zeppo da morire? Si, è possibile perché ognuno cerca, naturalmente, di vivere un po meno scomodo e di differenziarsi dalle bestie. Eppure no, via. L'automobile  non può e non deve diventare una rovinosa, veloce immoralità. E' un delitto che sparisca l'Italia intera per il comodo dei sedentaria motore. Sono necessari dei freni, parola giusta; ed è necessaria una buona marcia indietro: traffico automobilistico e motociclistico vietato in parecchie vie dei vecchi centri. O, secondo i casi, lecito esclusivamente ai tassì. Strade automobilistiche sotterranee. Servizi pubblici migliorati, adatti all'uman genere invece che al pollame. Proibizione di costruire altri edifici entro le parti centrali o prossime alle centrali, proibizione di sopralzi e di aumenti oltre il numero originario dei piani sotto il tetto o sotto terrazza, bloccaggio insomma dei centri storici, artistici, caratteristici, e non più mai imperialismi né verticali né orizzontali.
Eppoi, l'orario unico, con immediato vantaggio sia per la dignità e libertà umana, sia per ogni traffico e circolazione che diminuirebbero all'incirca della metà. Infatti, non avremmo più di quattro percorsi quotidiani, alle otto, alle dodici, alle quattordici, alle diciotto; ma due soltanto, alle otto e alle sedici. Orario unico che urge specie a Milano.
Leonardo Borgese, 18 ottobre 1960.
Tratto da: Borgese L., Emiliani V. (a cura di), L'Italia rovinata dagli italiani. Scritti sull'ambiente, la città, il paesaggio, 1946-70, Rizzoli, 2005, Milano

giovedì 6 novembre 2014

UNA VITA VIOLENTA

A Roma piove e ogni volta è un'emergenza. Eppure la fragilità del nostro bellissimo territorio è cosa risaputa, da sempre. 
Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1959 - Una vita violenta - un'opera bellissima, in cui l'autore descrive, tra le innumerevoli altre cose (dalla meravigliosa descrizione della quotidianità rude della vita romana nelle borgate del dopoguerra, alle occupazioni di case vuote e gli sgombri successivi da parte della polizia), il territorio stuprato della capitale proprio negli anni « (...) dell'invasione delle case vuote, spuntate dalla speculazione edilizia dei palazzinari romani all'arrembaggio. (...) ». (Erri De Luca in prefazione al libro)
Detto questo, se oggi è un dato di fatto che il nostro paese sta vivendo un'era nuova segnata clamorosamente da cambiamenti climatici importantissimi e devastanti, è anche vero che conseguentemente alle nostre scelte più scellerate (di pianificazione urbanistica e territoriale, ma non solo) abbiamo saputo rendere ogni pioggia come un momento di estremo disagio. 
Un piccolo brano molto significativo, ripreso da Una vita violenta (1959):


« (...) Tommaso e Alberto erano i più acchittoni(1) lì in mezzo, al Bar Duemila. Potevano permettersi di fare i malandri  con una certa leggerezza, benché senza troppo esagerare. Tutti calmi e distratti sortirono, montarono sulla vespa, Alberto davanti, Tommaso dietro. Alberto calcò sette otto volte, col tacco, su quella fija de 'na mignotta della messa in moto, e Tommaso intanto s'accomodò, con aria indifferente, guardandosi intorno. E non cambiò espressione neanche quando la vespa partì a razzo: teneva tranquillo le mani strette dietro la schiena, come c'avesse gli schiavettoni. 

A mancina il Monte del Pecoraro, a destra i lotti di Tiburtino in fondo al piazzale, con la campanella che suonava come una disgraziata, sparirono indietro. Sparì via delle Messi d'Oro, con l'osteria, la fila di oleandretti sderenati lungo il ciglione, con tutta la processione di gente e le truppe dei ragazzini e dei giovanotti, che, qua e là, andavano sempre nello stesso senso, per la Tiburtina; sparì il SilverCine e sparì la fabbrichetta zozza di sapone appena costruita li vicino. 

L'Aniene arrivava a Tiburtino scendendo giù dai Castelli: arrivato lì, passava sotto un ponticello vecchio di mattoni, dove c'era una draga e un'osteriuccia antica, una catacomba. Poi sfilava un po d'orti decrepiti, trucidi, pieni d'ogni ben di Dio, da una parte, e, dall'altra, verso i lotti di Tiburtino, tutto un pezzo di campagna a canne e spezzoni di grano mal tagliato. Passava poi sotto la fabbrica della varecchina, un accrocco(2) di serbatoi, di ballatoi, di terrazze marziane, che spurgava un ruscelletto bianco di acidi sulla corrente: imboccava l'archetto del ponte sulla Tiburtina, scompariva sotto una galleria di canne, e se ne andava giù, verso Montesacro, a buttarsi nel Tevere. 

Tutto questo pezzo di pianura, quella domenica, era trasformato in un mare. Fin dove l'occhio poteva arrivare, da una parte verso i monti di Tivoli, dall'altra lì presso, verso Tiburtina, non c'era altro che acqua. Tiburtino sorgeva come un porto, con le sue file tutte uguali di lotti, come magazzini, che avevano una facciata bianca illuminata dal sole, e l'altra in ombra, nera. Non c'era più distinzione di campi, prati, argini, strade e stradelli. In fondo in fondo il piccolo gasometro e la selva dei fari e dei riflettori della centrale, parevano tanti bastimenti ancorati.

La massa d'acqua si spingeva giù, gialla e densa, coi ribolli che s'ntorcinavano, fino contro l'argine della Tiburtina, schiumeggiando: lì si fermava, rabbiosa, rinculava, s'incanalava un'altra volta sul letto solito del fiume, e ammucchiandosi in cavalloni lividi, passava come una furia sotto il ponte: di là si riallargava un'altra volta nella campagna: e i quattro o cinque casali erano là in mezzo come tante arche di Noè. 
Su tutta quella distesa d'acqua, batteva il sole, tinteggiando d'oro una faccia delle migliaia e migliaia di onde, di crespe, tutte gialle, e illuminando i tronchi neri, l'erbacce, le casse, la zozzeria, le macchie d'olio che galleggiavano su tutto quell'orizzonte d'acqua bullicosa(3). 
Così la Tiburtina era come un molo, tutto pieno di gente ch'era venuta a gustarsi lo spettacolo dell'inondazione pareva la notte della sgrullata. 

Poi ecco arrivare il 311, diretto a Rebibbia: marciava piano piano, tra la gente imbottigliata, e come arrivò in fondo, all'altezza del ponte, si fermò. Alberto e Tommaso, sulla loro vespa, cogli altri ch'erano motorizzati, gli andarono appresso, a vedere quello che succedeva. Laggiù, difatti, a una cinquantina di metri dal ponte, pure la strada era ormai allagata. La gente dell'autobus, chi scendeva e chi restava sopra, stirando il collo dai finestrini. 
Poi due o tre giovanotti di Ponte Mammolo, tutti impompati(4), si tolsero gli scarpini, i pedali, s'arrovigliarono(5) sui polpacci i calzoni, alla pirata, e alzando moina per farsi vedere cominciarono a correre scalzi, tutti allegri, verso Via Casal Pazzi, a casa.
Quelli che invece erano rimasti di qua, uomini anziani, donne, impiegati, si morsicavano i gomiti, per l'impazienza e la rabbia: il fattorino s'era sbragato con le mani sulla pancia sulla sua seggioletta e fischiettava. 

Alberto, Tommaso e tutt'intorno un macello di pischelli e giovanotti, stettero lì per più di un'oretta a papparsi tutta l'operazione culo a mollo: un altro auto era venuto da Montesacro, dall'altra parte del ponte, perché non c'era da fidarsi a passarlo: e la gente, trasportata di là in un modo o nell'altro, tutta incollata, prendeva quello. Sulla Tiburtina, lì, in mezzo al mare, c'era più traffico e ingorgo di macchine che nelle ore di punta dentro Roma. 

L'unica campana nei dintorni era quella, piccoletta, di Tiburtino. Quando questa cominciò a fare tutta una canizza(6) per annunciare il mezzogiorno, il sole ormai non c'era più. Le nuvole che s'erano compresse e rannicchiate in fondo al cielo avevano ricominciato a gonfiarsi: bianche come la panna, erano scivolate lassù, in alto, s'erano riammassate, distaccate, riammassate ancora, leggere che parevano spose in abito da nozze, o scure e scorticate come mucchi d'immondezza scossi dalla giannetta. Avevano finito per riotturare tutto il cielo, una sopra, una sotto, una piccoletta, una grossa, una grigia, una scura, una bianca, e tutte impiastricciate, zozze, ghiacce. In un pezzo di cielo continuava a brillare il sole, che ormai era fatto, pareva dimenticato da Cristo, perché un fumo che non era nebbia e non era nuvole, correva sotto quella crosta che copriva il cielo, a ondate, nero come l'anima. Poi una parte di tutto quel mucchio di nuvoloni, di nuvolette, di fumo, diventò tutta grigia uguale, dalla parte di Roma. Era color della terra, e come terra sfregolava si stendeva a picco sopra la città: da lì venne un primo tuono che intronò fino dentro l'ossa. 

Ormai il mare su cui sorgeva Tiburtino, e si stendeva tutt'intorno sopra le campagne, era color nero: si distingueva ch'era acqua solo per il luccicare confuso delle crespe. Venne giù un temporale come la notte precedente, coi fulmini e la grandine. La gente fece appena in tempo a scappare a casa sotto i primi goccioloni, con un buio che pareva notte. (...) »

Glossarietto
(1) Acchitta - vestirsi con eleganza;
(2) Accrocco - mucchio, posto, insieme di cose;
(3) Bullicoso - ribollente;
(4) Impompati - vestito con lusso;
(5) Arrovigliarsi - arrotolarsi; 
(6) Canizza - baccano;

Tratto da: Pasolini P. P., Una vita violenta, Corriere della Sera - I grandi romanzi, 2003, Milano.






martedì 21 ottobre 2014

Osservazione estetica alla città filo-razionalista

Santiago de León de Caracas (una delle città giudicate più brutte al mondo)
La concezione di città planetaria che impone le stesse forme, le stesse dimensioni, le stesse funzioni distribuite nello spazio,  spegne le nozioni di identità culturale e di adattamenti all'ambiente umano. La suddivisione del territorio in zone ordina rigorosamente i settori del lavoro, del tempo libero e della circolazione. Molti approcci risultarono prevalenti nella disciplina urbanistica e influenzeranno profondamente le elaborazioni progettuali degli urbanisti italiani, non solo quelle di scuole più razionaliste, ma anche quelle di matrice organica, che,  se pur attente ai caratteri morfologici e culturali, trascurano spesso le significanze naturali degli ambiti da progettare. A prevalere è la monotonia dell’edificato e delle strutture, spesso non caratterizzate da nessun elemento decorativo, edifici spogliati di carattere. Eliminando  il decoro urbano, si elimina un sistema di valori che fa riferimento ad un patrimonio collettivo e che vive della collaborazione tra pubblico e privato. Muri e prospetti decorati che si affacciano e che fanno parte degli spazi pubblici sono un esempio di questo sistema di qualità. La fine del decoro urbano per la città ha mostrato la parte meno caratterizzante della nostra epoca.
Marco Romano nel suo testo La città come opera d’arte, evidenzia come da Mille anni in Europa le case hanno una facciata più o meno decorata con l’intenzione di renderla bella, ricorrendo ad una consolidata e costante sequenza di elementi architettonici. Questa sequenza, della quale siamo cosi assuefatti da non percepire neppure, consiste di solito in un basamento lavorato e in qualche modo distinto dai piani superiori, il solenne portone dell’ingresso, nell’eleganza delle modanature intorno alle finestre, nelle complicate balaustre del balcone, in uno spigolo sottolineato che irrobustisca gli angoli, e in fine in un cornicione o in un tetto sporgente che la conclude in alto. […] Le Corbusier aveva sostenuto negli anni Venti del Novecento, che la modernità dovesse consistere proprio nel cancellare codesti elementi, prescrivendo nei suoi manifesti in piano terreno libero dove compaiono soltanto i pilastri – cancellato dunque il basamento, come tutte le case di Brasilia - , finestre in un nastro orizzontale continuo che avrebbe impedito di per se stesso i timpani e le cornici consueti, e infine il tetto piano senza alcuna sporgenza. Ma di fatto poi gli architetti si guarderanno bene dal seguire questi principi e le facciate delle case moderne avranno gli stessi elementi costitutivi della loro bellezza, disegnati in nuovo stile affiancati a quelli in uso fino ad Ottanta anni fa: anche se poi il rigore del Purismo moderno è diventato la distesa di case anonime e insignificanti dei quartieri contemporanei. Si distinguono cosi gli status, gli intonaci dei poveri e i serramenti malamente verniciati dei quartieri popolari, contrapposti ai bei palazzi dell’élite.
Il mondo moderno per lungo tempo ha quasi dimenticato l’esistenza dei colori sulle facciate, preferendo poche tinte neutre, il bianco, il grigio e il marrone. La maggior parte degli edifici di nuova concezione razionalista (il più delle volte interpretazioni), spesso di scarso valore architettonico, non si integrano armoniosamente con il contesto antico, anzi la loro presenza risulta quasi sempre contrastante con il resto del contesto urbano, la mancanza di urbanità.
Oggi è diventato urgente il ritorno ad un’armoniosa integrazione tra la forma (conscio) e il colore (incoscio), che sostituisce la concezione forma e gesto architettonico.
Uno strumento legislativo importante è il “Piano del Colore” utile per la riqualificazione e il recupero del costruito antico, ma soprattutto per la regolamentazione dell’aspetto estetico degli edifici di recente costruzione, che completano il tessuto dei centri storici. I Piani del Colore sono spesso molto diversi tra loro, perché ogni Comune si è dotato di norme e organi differenti. Il rispetto per l’ambiente, presuppone anche il riguardo per le sue peculiarità: naturali, paesaggistiche, storiche, culturali, architettoniche. Oggi la globalizzazione tende ad avvilire la tradizione e la memoria, e i Piani del Colore si contrappongono a questa tendenza. Se in Italia infatti sono molti i Comuni che si sono dotati o si stanno dotando di un Piano del Colore del Centro Storico, pochi invece pensano a un Piano Cromatico per i moderni quartieri del margine urbano. Il colore è uno degli strumenti, forse il più importante, per la riqualificazione, perché con costi contenuti è possibile trasformare l’impatto visivo di un edificio, di una strada, di un quartiere, di un complesso industriale. Il colore, con la sua capacità di influire sulla percezione della forma, può riplasmare i volumi, correggere le distanze e armonizzare le proporzioni. “Nelle campagne, il colore può mimetizzare l’ingombrante e imbarazzante presenza degli edifici industriali. Anche nei casi in cui la situazione è particolarmente compromessa dal punto di vista estetico, il colore può aggiungere carattere, fantasia, allegria” . Forse la strada più corta per ovviare a precisi interventi di recupero strutturale più profondi, ma di certo un tassello importante, per la riqualificazione urbana (a basso costo) dei quartieri marginali alla città, ormai da molti anni spogli di carattere, per l’Italia, che presenta le più brutte periferia d’Europa.
M.G.L. (articolo del lunedì 19 marzo 2012 - laficudinia.blogspot.it/)

lunedì 13 ottobre 2014

Partecipare è difficile


La diatriba nata attorno al PPR della Toscana, emersa nel momento delle osservazioni avanzate da parte soprattutto di associazioni di settore e consorzi, sta mettendo in luce una carenza importante dei processi pianificatori promossi e avviati nel nostro paese.
Una grande incognita chaiamta "partecipazione" che risulta essere ancora una difficile matassa da sbrogliare. Dopo lo "struggente" articolo comparso sul Foglio a firma di Alessandro Giuli, sono state pubblicate diversi interventi in merito alla questione: quello del presidente della regione Toscana Rossi, quello di Paolo Baldeschi uscito su Eddyburg, quello dello stesso Magnaghi pubblicato sul sito della "setta" nominata Società dei Territorialisti e, tra gli altri, quello (Mecca su PPR 9_10_14) di Saverio Mecca comparso su Repubblica di Firenze il 09/10/2014. Quest'ultimo sottolinea proprio il bisogno di dare adesso "la parola, l'iniziativa e la responsabilità alle comunità", in sintesi: un lavoro utilissimo ed enorme quello portato avanti dal gruppo di lavoro del PPR che ora ha bisogno dell'aiuto più prezioso, quello proveniente dai territori, dalle associazioni di settore e dai cittadini.
Va detto comunque che in parallelo alla costruzione del PPR è stato realizzato "l'Osservatorio sul paesaggio" con finalità ben precise come "approfondire la conoscenza e la consapevolezza che la società locale ha del proprio territorio per contribuire alla valorizzazione del paesaggio e dell’identità locale", "esercitare un ruolo di verifica attiva sull’efficacia delle previsioni e delle azioni di tutela attraverso il monitoraggio delle trasformazioni del paesaggio" e "garantire una costante collaborazione tra i diversi livelli di governo del territorio al fine promuovere politiche e progetti di miglioramento della qualità paesaggistica e territoriale, favorendo al contempo l’ampliamento della partecipazione a tutti i soggetti interessati alle trasformazioni." Sono tutte questioni spinose che possono determinare sensibilmente i risultati dei piani e le dinamiche politiche delle giunte e dei consigli.
Viene in mente il volume "Avventure urbane", libro scritto nel 2002 da Marianella Pirzio Biroli Sclavi, I. Romano, S. Guercio, A. Pillon, M.Robiglio e I. Toussaint. La Sclavi è etnografa urbana al Politecnico di Milano (almeo nel 2002), e ha curato il libro basato sull'esperienza di un gruppo di giovani neo-architetti che sperimentano (nei primi anni '90) in Italia le teorie e le pratiche anglosassoni della progettazione partecipata degli spazi pubblici urbani.
L'idea di una pubblica amministrazione capace di coinvolgere gli abitanti nella progettazione degli spazi urbani in cui risiedono e/o lavorano è effettivamente estranea alla tradizione culturale politica italiana e più in generale alla tradizione giuridica dell'Europa continentale. Essa presuppone infatti una concezione dei rapporti tra società civile, potere politico e ruolo dell'amministrazione pubblica, in pratica rovesciata rispetto a quella che è stata dominante nel nostro paese durante il secolo scorso. I rapporti fra potere legislativo, potere esecutivo e società civile si traducono nel nostro paese, sostanzialmente con una netta separazione fra poteri forti e società, e da sempre con una pubblica amministrazione imparziale capace di operare soltanto con impersonalità e con controlli procedurali. Gli accordi sono di fatto esclusi fra attori sociali e pubblica amminstrazione ed essi sono visti come il primo passo verso il cedimento e la corruzione e gli attori più deboli della società civile possono avere voce unicamente tramite la rappresentanza politica e la partecipazione alle attività politiche. Viene il sospetto quindi, che in Italia i cittadini non si occupano degli spazi pubblici non per eccesso di "familismo amorale", ma per carenza di linguaggi e modalità organizzative e decisionali adeguati a rendere operativa e quindi efficace la comunicazione sugli ambienti, beni e diritti comuni.
In un contesto come questo, si chiede la Sclavi, quali sono allora le dimensioni dell'agire pubblico che una équipe di progettazione partecipata dotata di una adeguata metodologia può promuovere e che invece sono inibite o precluse tanto all'agire amministrativo che alla tradizionale mobilitazione politica? Sostiene l'autrice che sono quelle capaci di attivare in modo organico la disponibilità di tutta una serie di persone concrete presenti nelle più diverse posizioni sociali che già si trovano la fuori, non solo nei quartieri ma anche nelle istituzioni. E' molto importante inoltre cogliere al volo l'occasione quando questa si presenta, bisogna non solo convincere ma in qualche misura sedurre, stabilire rapporti di complicità per trasformare un'impresa impossibile in un'avventura condivisibile e condivisa.
John Forester, uno dei più importanti teorici della progettazione partecipata contemporanei, nel suo libro The Deliberative Practitioner definisce il successo di tale approccio in termini di public action che produce public learning. Tanto i progettisti che gli abitanti e tutti gli altri soggetti - assessori, dirigenti, costruttori, commercianti, poliziotti, assistenti sociali, insegnanti e così via - coinvolti in una iniziativa di progettazione partecipata del territorio accettano la sfida di ridefinire i problemi tramite l'apprendimento reciproco e di inventare nuove opzioni, diverse dalle posizioni di partenza; si tratta di acquisire nel corso del processo un savoir faire che li renda capaci di prendere decisioni di portata pubblica in un clima di collaborazione tra diversi. Questo savoir faire viene enucleato da Forester in tre competenze di base: saper ascoltare, saper interpretare gli input cognitivi delle emozioni, saper gestire creativamente i conflitti.
In un mondo e una società sempre più complessi, le buone pratiche della comunicazione e della convivenza interculturale divengono una dimensione fondamentale della comunicazione e della democrazia anche all'interno di una stessa cultura. I teorici dei sistemi complessi concordano che per gestire situazioni caratterizzate dal contemporaneo aumento della differenziazione e della interdipendenza sono necessarie due condizioni:
1) creare meccanismi grazie ai quali la progettazione assomigli sempre meno a un programma prestabilito e invece sempre più a una strategia in grado di apprendere dagli eventi e dalle contingenze che si producono durante la messa in atto;
2) moltiplicare le forme di auto.organizzazione (la pluralità degli attori) e la loro capacità di mettersi in rete, trasformando i conflitti in occasioni di apprendimento, cioè operare "glocalmente".
Nessuna di queste operazioni può oggigiorno essere svolta efficacemente da chi opera nella pubblica amministrazione senza appoggiarsi su una équipe esterna dotata di ampia autonomia e di un vasto bagaglio di competenze, che vanno dalla strumentazione più tradizionale dell'urbanista, alla costruzione di comunità in situazioni di interculturalità, alla gestione creativa dei conflitti. Assolutamente centrale in tutte queste dinamiche è il ruolo della "comunicazione", intesa come possibilità di sperimentare nuove modalità comunicative adeguate a promuovere la partecipazione in una società complessa; un ampliamento dei linguaggi a disposizione che renda possibile un vero dialogo fra progettisti, amministratori e abitanti. Ma allora, cosa può favorire veramente la cooperazione? La fiducia, quando manca la fiducia , l'unica via percorribile è quella della burocratizzazione, o peggio quella mafiosa.
E' chiaro che progettare uno spazio pubblico di una qualsiasi città non ha la stessa portata di realizzare un Piano Paesaggistico questo è scontato e banale, come pure capire che organizzare un processo partecipativo per un progetto urbano non è assolutamente la stessa cosa che farlo per un piano regionale. Detto questo c'è stata, comunque, alla base del PPR l'intenzione e non solo quella, di organizzare momenti importanti (sicuramente non perfetti) rivolti ad approfondire un ascolto attivo dei pareri e dei bisogni della cittadinanza toscana.
Ma non è sempre così, si pensi al comune di Empoli. Oggi ad esempio (11/10/2014) sul quotidiano "La Nazione" è stato pubblicato un articolo dal titolo "Opere pubbliche per 33 milioni. Tre anni di cantieri verso il futuro. Il piano del Comune riguarda scuole, strade, parcheggi, cimiteri, sport." "Ben 33 milioni e 255mila euro. A tanto ammonta l'importo del programma triennale delle opere pubbliche del Comune di Empoli per il periodo 2015-2017".
Bene. Ma se è vero quello che dice Forester (riportato sempre dalla Sclavi in Avventure urbane) che cioè bisogna spingere per dar voce non solo ai soggetti e gruppi emarginati, ma gli stessi urbanisti promotori di buone pratiche tese a favorire co-progettazione del territorio e public learning, perchè soprattutto loro, seppur socialmente privilegiati, hanno bisogno di indagare e riportare alla luce e pazientemente ricostruire le narrazioni soppresse (...) per riuscire a gettare le basi di un paradigma e di una concezione di potere alternativi. Non c'è stata una volta, una sola volta in cui il comune di Empoli abbia attivato una proficua collaborazione, per la realizzazione di pratiche urbanistiche innovative, con il Corso di Pianificazione territoriale del Dipartimento fiorentino di Architettura, nato ormai più di 10 anni fa proprio a Empoli. Mai una volta le conoscenze, le professionalità, le capacità degli studenti d'urbanistica della scuola empolese, gli stessi che in parte hanno collaborato alla redazione del PPR regionale, sono state messe in pratica in occasioni come quelle riportate dalla "Nazione" di oggi. Una situazione a dir poco surreale.

Anche perchè se è questa la considerazione data ai giovani urbanisti dalle amministrazioni empolesi, viene da chiedersi, ma cosa ci sta a fare il corso di laurea in pianificazione a Empoli? Non sarebbe meglio andare da un'altra parte?
La diatriba nata attorno al PPR della Toscana, emersa nel momento delle osservazioni avanzate da parte soprattutto di associazioni di settore e consorzi, sta mettendo in luce una carenza importante dei processi pianificatori promossi e avviati nel nostro paese. Una grande incognita chaiamta “partecipazione” che risulta essere ancora una difficile matassa da sbrogliare. Dopo lo “struggente” articolo comparso sul Foglio a firma di Alessandro Giuli, sono state pubblicate diversi interventi in merito alla questione: quello del presidente della regione Toscana Rossi, quello di Paolo Baldeschi uscito su Eddyburg, quello dello stesso Magnaghi pubblicato sul sito della “setta” nominata Società dei Territorialisti e, tra gli altri, quello (Mecca su PPR 9_10_14) di Saverio Mecca comparso su Repubblica di Firenze il 09/10/2014. Quest’ultimo sottolinea proprio il bisogno di dare adesso “la parola, l’iniziativa e la responsabilità alle comunità”, in sintesi: un lavoro utilissimo ed enorme quello portato avanti dal gruppo di lavoro del PPR che ora ha bisogno dell’aiuto più prezioso, quello proveniente dai territori, dalle associazioni di settore e dai cittadini. Va detto comunque che in parallelo alla costruzione del PPR è stato realizzato “l’Osservatorio sul paesaggio” con finalità ben precise come “approfondire la conoscenza e la consapevolezza che la società locale ha del proprio territorio per contribuire alla valorizzazione del paesaggio e dell’identità locale”, “esercitare un ruolo di verifica attiva sull’efficacia delle previsioni e delle azioni di tutela attraverso il monitoraggio delle trasformazioni del paesaggio” e “garantire una costante collaborazione tra i diversi livelli di governo del territorio al fine promuovere politiche e progetti di miglioramento della qualità paesaggistica e territoriale, favorendo al contempo l’ampliamento della partecipazione a tutti i soggetti interessati alle trasformazioni.” Sono tutte questioni spinose che possono determinare sensibilmente i risultati dei piani e le dinamiche politiche delle giunte e dei consigli. Viene in mente il volume “Avventure urbane”, libro scritto nel 2002 da Marianella Pirzio Biroli Sclavi, I. Romano, S. Guercio, A. Pillon, M.Robiglio e I. Toussaint. La Sclavi è etnografa urbana al Politecnico di Milano (almeo nel 2002), e ha curato il libro basato sull’esperienza di un gruppo di giovani neo-architetti che sperimentano (nei primi anni ’90) in Italia le teorie e le pratiche anglosassoni della progettazione partecipata degli spazi pubblici urbani. L’idea di una pubblica amministrazione capace di coinvolgere gli abitanti nella progettazione degli spazi urbani in cui risiedono e/o lavorano è effettivamente estranea alla tradizione culturale politica italiana e più in generale alla tradizione giuridica dell’Europa continentale. Essa presuppone infatti una concezione dei rapporti tra società civile, potere politico e ruolo dell’amministrazione pubblica, in pratica rovesciata rispetto a quella che è stata dominante nel nostro paese durante il secolo scorso. I rapporti fra potere legislativo, potere esecutivo e società civile si traducono nel nostro paese, sostanzialmente con una netta separazione fra poteri forti e società, e da sempre con una pubblica amministrazione imparziale capace di operare soltanto con impersonalità e con controlli procedurali. Gli accordi sono di fatto esclusi fra attori sociali e pubblica amminstrazione ed essi sono visti come il primo passo verso il cedimento e la corruzione e gli attori più deboli della società civile possono avere voce unicamente tramite la rappresentanza politica e la partecipazione alle attività politiche. Viene il sospetto quindi, che in Italia i cittadini non si occupano degli spazi pubblici non per eccesso di “familismo amorale”, ma per carenza di linguaggi e modalità organizzative e decisionali adeguati a rendere operativa e quindi efficace la comunicazione sugli ambienti, beni e diritti comuni. In un contesto come questo, si chiede la Sclavi, quali sono allora le dimensioni dell’agire pubblico che una équipe di progettazione partecipata dotata di una adeguata metodologia può promuovere e che invece sono inibite o precluse tanto all’agire amministrativo che alla tradizionale mobilitazione politica? Sostiene l’autrice che sono quelle capaci di attivare in modo organico la disponibilità di tutta una serie di persone concrete presenti nelle più diverse posizioni sociali che già si trovano la fuori, non solo nei quartieri ma anche nelle istituzioni. E’ molto importante inoltre cogliere al volo l’occasione quando questa si presenta, bisogna non solo convincere ma in qualche misura sedurre, stabilire rapporti di complicità per trasformare un’impresa impossibile in un’avventura condivisibile e condivisa. John Forester, uno dei più importanti teorici della progettazione partecipata contemporanei, nel suo libro The Deliberative Practitioner definisce il successo di tale approccio in termini di public action che produce public learning. Tanto i progettisti che gli abitanti e tutti gli altri soggetti – assessori, dirigenti, costruttori, commercianti, poliziotti, assistenti sociali, insegnanti e così via – coinvolti in una iniziativa di progettazione partecipata del territorio accettano la sfida di ridefinire i problemi tramite l’apprendimento reciproco e di inventare nuove opzioni, diverse dalle posizioni di partenza; si tratta di acquisire nel corso del processo un savoir faire che li renda capaci di prendere decisioni di portata pubblica in un clima di collaborazione tra diversi. Questo savoir faire viene enucleato da Forester in tre competenze di base: saper ascoltare, saper interpretare gli input cognitivi delle emozioni, saper gestire creativamente i conflitti. In un mondo e una società sempre più complessi, le buone pratiche della comunicazione e della convivenza interculturale divengono una dimensione fondamentale della comunicazione e della democrazia anche all’interno di una stessa cultura. I teorici dei sistemi complessi concordano che per gestire situazioni caratterizzate dal contemporaneo aumento della differenziazione e della interdipendenza sono necessarie due condizioni: 1) creare meccanismi grazie ai quali la progettazione assomigli sempre meno a un programma prestabilito e invece sempre più a una strategia in grado di apprendere dagli eventi e dalle contingenze che si producono durante la messa in atto; 2) moltiplicare le forme di auto.organizzazione (la pluralità degli attori) e la loro capacità di mettersi in rete, trasformando i conflitti in occasioni di apprendimento, cioè operare “glocalmente”. Nessuna di queste operazioni può oggigiorno essere svolta efficacemente da chi opera nella pubblica amministrazione senza appoggiarsi su una équipe esterna dotata di ampia autonomia e di un vasto bagaglio di competenze, che vanno dalla strumentazione più tradizionale dell’urbanista, alla costruzione di comunità in situazioni di interculturalità, alla gestione creativa dei conflitti. Assolutamente centrale in tutte queste dinamiche è il ruolo della “comunicazione”, intesa come possibilità di sperimentare nuove modalità comunicative adeguate a promuovere la partecipazione in una società complessa; un ampliamento dei linguaggi a disposizione che renda possibile un vero dialogo fra progettisti, amministratori e abitanti. Ma allora, cosa può favorire veramente la cooperazione? La fiducia, quando manca la fiducia , l’unica via percorribile è quella della burocratizzazione, o peggio quella mafiosa. E’ chiaro che progettare uno spazio pubblico di una qualsiasi città non ha la stessa portata di realizzare un Piano Paesaggistico questo è scontato e banale, come pure capire che organizzare un processo partecipativo per un progetto urbano non è assolutamente la stessa cosa che farlo per un piano regionale. Detto questo c’è stata, comunque, alla base del PPR l’intenzione e non solo quella, di organizzare momenti importanti (sicuramente non perfetti) rivolti ad approfondire un ascolto attivo dei pareri e dei bisogni della cittadinanza toscana. Ma non è sempre così, si pensi al comune di Empoli. Oggi ad esempio (11/10/2014) sul quotidiano “La Nazione” è stato pubblicato un articolo dal titolo “Opere pubbliche per 33 milioni. Tre anni di cantieri verso il futuro. Il piano del Comune riguarda scuole, strade, parcheggi, cimiteri, sport.” “Ben 33 milioni e 255mila euro. A tanto ammonta l’importo del programma triennale delle opere pubbliche del Comune di Empoli per il periodo 2015-2017″. Bene. Ma se è vero quello che dice Forester (riportato sempre dalla Sclavi in Avventure urbane) che cioè bisogna spingere per dar voce non solo ai soggetti e gruppi emarginati, ma gli stessi urbanisti promotori di buone pratiche tese a favorire co-progettazione del territorio e public learning, perchè soprattutto loro, seppur socialmente privilegiati, hanno bisogno di indagare e riportare alla luce e pazientemente ricostruire le narrazioni soppresse (…) per riuscire a gettare le basi di un paradigma e di una concezione di potere alternativi. Non c’è stata una volta, una sola volta in cui il comune di Empoli abbia attivato una proficua collaborazione, per la realizzazione di pratiche urbanistiche innovative, con il Corso di Pianificazione territoriale del Dipartimento fiorentino di Architettura, nato ormai più di 10 anni fa proprio a Empoli. Mai una volta le conoscenze, le professionalità, le capacità degli studenti d’urbanistica della scuola empolese, gli stessi che in parte hanno collaborato alla redazione del PPR regionale, sono state messe in pratica in occasioni come quelle riportate dalla “Nazione” di oggi. Una situazione a dir poco surreale. Anche perchè se è questa la considerazione data ai giovani urbanisti dalle amministrazioni empolesi, viene da chiedersi, ma cosa ci sta a fare il corso di laurea in pianificazione a Empoli? Non sarebbe meglio andare da un’altra parte?

Leggi questo articolo su: http://www.gonews.it/2014/10/12/partecipare-e-difficile/
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La diatriba nata attorno al PPR della Toscana, emersa nel momento delle osservazioni avanzate da parte soprattutto di associazioni di settore e consorzi, sta mettendo in luce una carenza importante dei processi pianificatori promossi e avviati nel nostro paese. Una grande incognita chaiamta “partecipazione” che risulta essere ancora una difficile matassa da sbrogliare. Dopo lo “struggente” articolo comparso sul Foglio a firma di Alessandro Giuli, sono state pubblicate diversi interventi in merito alla questione: quello del presidente della regione Toscana Rossi, quello di Paolo Baldeschi uscito su Eddyburg, quello dello stesso Magnaghi pubblicato sul sito della “setta” nominata Società dei Territorialisti e, tra gli altri, quello (Mecca su PPR 9_10_14) di Saverio Mecca comparso su Repubblica di Firenze il 09/10/2014. Quest’ultimo sottolinea proprio il bisogno di dare adesso “la parola, l’iniziativa e la responsabilità alle comunità”, in sintesi: un lavoro utilissimo ed enorme quello portato avanti dal gruppo di lavoro del PPR che ora ha bisogno dell’aiuto più prezioso, quello proveniente dai territori, dalle associazioni di settore e dai cittadini. Va detto comunque che in parallelo alla costruzione del PPR è stato realizzato “l’Osservatorio sul paesaggio” con finalità ben precise come “approfondire la conoscenza e la consapevolezza che la società locale ha del proprio territorio per contribuire alla valorizzazione del paesaggio e dell’identità locale”, “esercitare un ruolo di verifica attiva sull’efficacia delle previsioni e delle azioni di tutela attraverso il monitoraggio delle trasformazioni del paesaggio” e “garantire una costante collaborazione tra i diversi livelli di governo del territorio al fine promuovere politiche e progetti di miglioramento della qualità paesaggistica e territoriale, favorendo al contempo l’ampliamento della partecipazione a tutti i soggetti interessati alle trasformazioni.” Sono tutte questioni spinose che possono determinare sensibilmente i risultati dei piani e le dinamiche politiche delle giunte e dei consigli. Viene in mente il volume “Avventure urbane”, libro scritto nel 2002 da Marianella Pirzio Biroli Sclavi, I. Romano, S. Guercio, A. Pillon, M.Robiglio e I. Toussaint. La Sclavi è etnografa urbana al Politecnico di Milano (almeo nel 2002), e ha curato il libro basato sull’esperienza di un gruppo di giovani neo-architetti che sperimentano (nei primi anni ’90) in Italia le teorie e le pratiche anglosassoni della progettazione partecipata degli spazi pubblici urbani. L’idea di una pubblica amministrazione capace di coinvolgere gli abitanti nella progettazione degli spazi urbani in cui risiedono e/o lavorano è effettivamente estranea alla tradizione culturale politica italiana e più in generale alla tradizione giuridica dell’Europa continentale. Essa presuppone infatti una concezione dei rapporti tra società civile, potere politico e ruolo dell’amministrazione pubblica, in pratica rovesciata rispetto a quella che è stata dominante nel nostro paese durante il secolo scorso. I rapporti fra potere legislativo, potere esecutivo e società civile si traducono nel nostro paese, sostanzialmente con una netta separazione fra poteri forti e società, e da sempre con una pubblica amministrazione imparziale capace di operare soltanto con impersonalità e con controlli procedurali. Gli accordi sono di fatto esclusi fra attori sociali e pubblica amminstrazione ed essi sono visti come il primo passo verso il cedimento e la corruzione e gli attori più deboli della società civile possono avere voce unicamente tramite la rappresentanza politica e la partecipazione alle attività politiche. Viene il sospetto quindi, che in Italia i cittadini non si occupano degli spazi pubblici non per eccesso di “familismo amorale”, ma per carenza di linguaggi e modalità organizzative e decisionali adeguati a rendere operativa e quindi efficace la comunicazione sugli ambienti, beni e diritti comuni. In un contesto come questo, si chiede la Sclavi, quali sono allora le dimensioni dell’agire pubblico che una équipe di progettazione partecipata dotata di una adeguata metodologia può promuovere e che invece sono inibite o precluse tanto all’agire amministrativo che alla tradizionale mobilitazione politica? Sostiene l’autrice che sono quelle capaci di attivare in modo organico la disponibilità di tutta una serie di persone concrete presenti nelle più diverse posizioni sociali che già si trovano la fuori, non solo nei quartieri ma anche nelle istituzioni. E’ molto importante inoltre cogliere al volo l’occasione quando questa si presenta, bisogna non solo convincere ma in qualche misura sedurre, stabilire rapporti di complicità per trasformare un’impresa impossibile in un’avventura condivisibile e condivisa. John Forester, uno dei più importanti teorici della progettazione partecipata contemporanei, nel suo libro The Deliberative Practitioner definisce il successo di tale approccio in termini di public action che produce public learning. Tanto i progettisti che gli abitanti e tutti gli altri soggetti – assessori, dirigenti, costruttori, commercianti, poliziotti, assistenti sociali, insegnanti e così via – coinvolti in una iniziativa di progettazione partecipata del territorio accettano la sfida di ridefinire i problemi tramite l’apprendimento reciproco e di inventare nuove opzioni, diverse dalle posizioni di partenza; si tratta di acquisire nel corso del processo un savoir faire che li renda capaci di prendere decisioni di portata pubblica in un clima di collaborazione tra diversi. Questo savoir faire viene enucleato da Forester in tre competenze di base: saper ascoltare, saper interpretare gli input cognitivi delle emozioni, saper gestire creativamente i conflitti. In un mondo e una società sempre più complessi, le buone pratiche della comunicazione e della convivenza interculturale divengono una dimensione fondamentale della comunicazione e della democrazia anche all’interno di una stessa cultura. I teorici dei sistemi complessi concordano che per gestire situazioni caratterizzate dal contemporaneo aumento della differenziazione e della interdipendenza sono necessarie due condizioni: 1) creare meccanismi grazie ai quali la progettazione assomigli sempre meno a un programma prestabilito e invece sempre più a una strategia in grado di apprendere dagli eventi e dalle contingenze che si producono durante la messa in atto; 2) moltiplicare le forme di auto.organizzazione (la pluralità degli attori) e la loro capacità di mettersi in rete, trasformando i conflitti in occasioni di apprendimento, cioè operare “glocalmente”. Nessuna di queste operazioni può oggigiorno essere svolta efficacemente da chi opera nella pubblica amministrazione senza appoggiarsi su una équipe esterna dotata di ampia autonomia e di un vasto bagaglio di competenze, che vanno dalla strumentazione più tradizionale dell’urbanista, alla costruzione di comunità in situazioni di interculturalità, alla gestione creativa dei conflitti. Assolutamente centrale in tutte queste dinamiche è il ruolo della “comunicazione”, intesa come possibilità di sperimentare nuove modalità comunicative adeguate a promuovere la partecipazione in una società complessa; un ampliamento dei linguaggi a disposizione che renda possibile un vero dialogo fra progettisti, amministratori e abitanti. Ma allora, cosa può favorire veramente la cooperazione? La fiducia, quando manca la fiducia , l’unica via percorribile è quella della burocratizzazione, o peggio quella mafiosa. E’ chiaro che progettare uno spazio pubblico di una qualsiasi città non ha la stessa portata di realizzare un Piano Paesaggistico questo è scontato e banale, come pure capire che organizzare un processo partecipativo per un progetto urbano non è assolutamente la stessa cosa che farlo per un piano regionale. Detto questo c’è stata, comunque, alla base del PPR l’intenzione e non solo quella, di organizzare momenti importanti (sicuramente non perfetti) rivolti ad approfondire un ascolto attivo dei pareri e dei bisogni della cittadinanza toscana. Ma non è sempre così, si pensi al comune di Empoli. Oggi ad esempio (11/10/2014) sul quotidiano “La Nazione” è stato pubblicato un articolo dal titolo “Opere pubbliche per 33 milioni. Tre anni di cantieri verso il futuro. Il piano del Comune riguarda scuole, strade, parcheggi, cimiteri, sport.” “Ben 33 milioni e 255mila euro. A tanto ammonta l’importo del programma triennale delle opere pubbliche del Comune di Empoli per il periodo 2015-2017″. Bene. Ma se è vero quello che dice Forester (riportato sempre dalla Sclavi in Avventure urbane) che cioè bisogna spingere per dar voce non solo ai soggetti e gruppi emarginati, ma gli stessi urbanisti promotori di buone pratiche tese a favorire co-progettazione del territorio e public learning, perchè soprattutto loro, seppur socialmente privilegiati, hanno bisogno di indagare e riportare alla luce e pazientemente ricostruire le narrazioni soppresse (…) per riuscire a gettare le basi di un paradigma e di una concezione di potere alternativi. Non c’è stata una volta, una sola volta in cui il comune di Empoli abbia attivato una proficua collaborazione, per la realizzazione di pratiche urbanistiche innovative, con il Corso di Pianificazione territoriale del Dipartimento fiorentino di Architettura, nato ormai più di 10 anni fa proprio a Empoli. Mai una volta le conoscenze, le professionalità, le capacità degli studenti d’urbanistica della scuola empolese, gli stessi che in parte hanno collaborato alla redazione del PPR regionale, sono state messe in pratica in occasioni come quelle riportate dalla “Nazione” di oggi. Una situazione a dir poco surreale. Anche perchè se è questa la considerazione data ai giovani urbanisti dalle amministrazioni empolesi, viene da chiedersi, ma cosa ci sta a fare il corso di laurea in pianificazione a Empoli? Non sarebbe meglio andare da un’altra parte?

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martedì 16 settembre 2014

Cambio di marcia verso l'Expo 2015

Rho e l'espansione edlizia (CLICCA SULL'IMMAGINE PER INGRANDIRE)
L
Regione Lombardia negli ultimi anni si è impegnata su molteplici aspetti, per la salvaguardia del territorio e per le economie locali; il paesaggio milanese, tende con il tempo a trasformazioni irreversibili che, a mio parere, hanno l'esigenza di un cambio di marcia. 
Quello che mi preme sottolineare è l'aspetto ecologico legato non solo alla “naturalità” in se, come ambiente pulito e sano, ma anche il punto di vista produttivo. 
Ridare un ruolo economico alla campagna, far emergere quelle che sono le economie locali, ripartire dalle proprie forze. In questo quadro alcuni progetti speciali che la Regione Lombardia sta affrontando vanno verso una direzione di tutela e valorizzazione delle risorse, i Contratti di Fiume, Progetto Fiumi e l'attesissimo Expo 2015.
Lo sviluppo di nuove forme di progettualità, ma anche di rappresentazione e valorizzazione delle specificità dei territori, è stato uno degli aspetti più discussi, soprattutto in relazione alle ricadute di Expo 2015 sul sistema dello sviluppo locale attorno ai bacini idrografici. “Recuperare il rispetto per la natura significa, riportare al loro antico splendore i corsi e le sorgenti d'acqua, della Lombardia e del Paese intero. Quelli lungo i quali il più grande genio italico, Leonardo Da Vinci, portò avanti i propri studi di idraulica; quelli da cui attingiamo ogni giorno per irrigare i campi e dai quali dipende la qualità degli alimenti di cui ci nutriamo. Per questo un fiume Lambro rivitalizzato, rinsavito, depurato, diverrebbe il simbolo ideale dell'Expo.” (cit. Un Lambro pulito per l'Expo 2015, paragrafo dal sito dei Contratti di Fiume). 
Tutto sembra meraviglioso in questo quadro, le idee ed i progetti saranno efficaci per ridare spazio all'ambiente naturale? Ci sara veramente questo cambio di marcia? .. Non rimane che aspettare. 
Planner Giovanni Mendola